Indietro
menu
Approfondimenti Newsrimini Provincia

Verso l’Assemblea Diocesana: la lettera del vescovo ai sacerdoti

di Redazione   
Tempo di lettura 22 min
Mar 2 Set 2008 18:26 ~ ultimo agg. 12 Mag 15:35
Tempo di lettura 22 min

La lettera, che ha per tema la dimensione contemplativa della vita sacerdotale, inizia con un’ampia riflessione che ripercorre alcuni
momenti del primo anno di servizio episcopale nella nostra diocesi.
Segue l’esortazione a preparare l’Assemblea diocesana attraverso un forte cammino spirituale. Per fare questo il vescovo invita, nell’anno paolino appena inaugurato, a mettersi alla scuola di San Paolo, maestro di preghiera.
Concluso quello che lui chiama il “check-up sulla preghiera con il test di san Paolo”, il Vescovo si mette in gioco e con semplicità
racconta la sua esperienza personale in fatto di preghiera.
_________________________________________________

Il testo integrale della lettera:

Abbagliati dal Suo volto
Lettera ai Presbiteri sulla contemplazione

Carissimi Fratelli e Amici,

il breve periodo di riposo di questi giorni non ha potuto tenere lontano da voi né la mente né il cuore. Anzi, il silenzio e la grande pace che si respirano in questo incantevole angolo di Ciociaria, mi regalano dosi abbondanti di calma per godere – con commossa gratitudine verso il Signore e verso di voi – il gradevole piacere di risfogliare mentalmente pagine e fotogrammi dal folto album del mio-nostro, ormai quasi compiuto, primo anno riminese.

Benedetto sia Dio Padre

1. Ripenso, rivivo, ringrazio. Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo (2Cor 1,3), che nei mesi scorsi ha fatto a noi infinitamente di più di quanto da parte mia – ma, sono sicuro, anche da parte vostra – si poteva immaginare o pensare. (cfr Ef 3,20) Ci ha donato di sperimentare ancora una volta la sua onnipotenza grandissima, somministrataci in quote direttamente proporzionali alla nostra grandissima impotenza. Come Pastore dolce e vigoroso, ci ha allungato il suo braccio robusto e la sua tenera mano nei passaggi più scivolosi e ci ha fatto riposare dopo i tratti più ripidi e scoscesi del nostro impervio cammino. Ci ha rincuorato nell’ora della paura e ha ridato fiato e speranza a chi tra di noi sentiva di non farcela più. Quale Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, ci ha consolato in ogni nostra tribolazione (2Cor 1,3), come quando abbiamo pianto per la morte di don Oreste, ma non ha esitato a disturbare la nostra tranquillità con il grido dei poveri, ogni volta che abbiamo rischiato di “andare in automatico”. Ci ha donato la freschezza di ben quattro giovani preti (don Massimiliano, don Raffaele, don Alberto, Don Marcello), di un diacono candidato al presbiterato (Stefano) e di due diaconi permanenti (Elio, Michele). Come Padre che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi (Rm 8,32), ci ha anche edificato con l’umile, serena docilità di alcuni confratelli nell’accettare le prove della salute o della vecchiaia, e ci ha pungolato con la pronta obbedienza di diversi di voi che hanno vissuto con sofferta, ma sempre generosa disponibilità la nuova missione che ho ritenuto coram Domino di dover loro affidare. Il Dio che usa misericordia (Rm 9,16) ci ha regalato poi non solo un bellissimo seminario, nuovo di zecca, ma anche un buon gruppetto di seminaristi a cui stanno per aggiungersi diversi aspiranti, pronti ad incominciare l’anno propedeutico nel prossimo settembre.

Il “giro-preti”

E non è finita qui… quanti altri doni ancora ha fatto il Signore al nostro Presbiterio! come non ricordare, benedire, rendere grazie?! Perciò ringrazio il mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera (Fil 1,3). In particolare lo ringrazio per l’intensa gioia che ho provato nel venirvi a visitare uno ad uno nelle vostre canoniche e per aver trovato da parte di tutti e di ciascuno un’accoglienza che non finisce di emozionarmi. Quel primo “giro dei preti” mi ha stampato nel cuore volti, nomi, storie incancellabili. Ve lo debbo proprio dire, ma per non mettervi a disagio, continuo a farmi prestare le parole da s. Paolo: Mi rallegro perché posso contare totalmente su di voi (2Cor 7,16). Quelle visite mi hanno permesso di allacciare un canale di comunicazione con ognuno di voi, una comunicazione schietta e cordiale, dall’inconfondibile timbro “romagnolo”, che, con la grazia dello Spirito Santo, diventerà sempre più fluida, più intensa e profonda. Diventerà semplicemente – lo possiamo, lo dobbiamo sperare! – sempre più umana e cristiana, e fiorirà nella più fraterna comunione sacerdotale.

Verso l’Assemblea

2. In questi giorni il mio pensiero corre spesso in avanti, verso l’Assemblea Diocesana del 12 ottobre p.v. Fin da quando ne abbiamo cominciato a parlare, ho potuto registrare in mezzo a voi attenzione sincera, unita a vivo interesse e accompagnata da una seria, responsabile consapevolezza. Non possiamo sciupare questo dono, che tutti vogliamo piuttosto accogliere come un frammento preziosissimo di presenza reale dello Spirito Santo nella nostra Chiesa. Non possiamo e non dobbiamo bruciare un evento così rilevante con attese esorbitanti, con aspettative incontentabili, ma neanche con presenze puramente formali né tantomeno con schizzinose latitanze.

Come prepararci, noi presbiteri?

Mi domando perciò: cosa possiamo fare noi tutti, come membri del Presbiterio, per prepararci a questa Assemblea, dedicata alla contemplazione del volto del Signore? Cosa siamo disposti a giocarci per poter guidare con l’autorevolezza della nostra credibilità i fedeli che ci sono affidati, a vivere il prossimo anno pastorale come un cammino teso alla riscoperta del primato della contemplazione, che poi significa primato della grazia e della chiamata alla santità? Ne parleremo più diffusamente nella riunione apposita del Presbiterio il prossimo 19 settembre in Seminario. Ma una prima risposta me la dovete consentire: c’è senz’altro una cosa che solo noi possiamo fare, nel senso che nessuno la può fare al posto nostro: riaprire la questione della nostra vita spirituale. In altre parole, riassumerci l’impegno di controllare il peso specifico della dimensione contemplativa nel nostro ministero.

Mettiamoci alla scuola di San Paolo, maestro di preghiera

Per quanto mi riguarda personalmente, posso dirvi che questo è un interrogativo che non finisce di assillarmi. Non vorrei scandalizzarvi, ma più vado avanti negli anni e più mi pare di non saper pregare. Sono sicuro che non pochi di voi avrebbero molto da insegnarmi in materia. Mi domando perciò: che cosa vi posso dire io che voi già non sapete? che aiuto vi posso dare che voi già non avete? Certo, l’ideale di una preghiera fedele, gratuita, innamorata, non finisce di appassionarmi. D’altra parte il dovere di raccomandarvi continuamente di ravvivare il dono di Dio che è in voi per l’imposizione delle mani (2Tm 1,6) mi impegna a fare di tutto per aiutarvi a curare con tenacia e grande delicatezza la vostra vita spirituale.

Visto allora – lo dico sinceramente – che non posso farvi da specchio, ho pensato, in questi primi giorni dell’anno paolino, di invitarvi a specchiarci insieme nella testimonianza e nell’esperienza di s. Paolo. Proviamo…

La preghiera non è un optional…

3.1. La preghiera per Paolo non è un optional: è come l’aria, come l’acqua o il pane, di cui non si può mai fare a meno, pena la morte. Prima e più che un dovere, la preghiera è un bisogno del cuore, una necessità primaria e ineludibile. Tutt’altro che puntuale o intermittente, è vera esperienza “no-stop” lungo il cammino dei giorni: è un cantus firmus instancabile, inarrestabile. Ecco una lista di passi, tratti da quello che si potrebbe chiamare il “vangelo secondo Paolo”, che lo documentano in modo inconfutabile: Noi rendiamo continuamente grazie a Dio (Col 1,3); non cessiamo di pregare (Col 1,9); preghiamo di continuo (2Ts 1,11); dobbiamo sempre rendere grazie a Dio (2Ts 1,3; 2,13); ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi (Fil 1,4). La lista si potrebbe allungare. Ma passiamo ad una lista parallela di versetti, in cui Paolo esorta le comunità cristiane a fare la sua stessa esperienza: Pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie (1Ts 5,17s); in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste (Fil 4,6); rendete continuamente grazie, per ogni cosa a Dio Padre (Ef 5,20); pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito (Ef 6,18). Si potrebbero aggiungere molti altri passi, ma ciò che più conta è notare come, anche in questo campo, Paolo è fedele all’insegnamento del Maestro che aveva caldamente raccomandato la “necessità di pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1).

… è incarnata

3.2. La preghiera di Paolo è esperienza vitale, anche nel senso che non è settoriale o periferica, parallela all’esistenza; ne è piuttosto l’anima, ed è incarnata nella concretezza irripetibile di ogni singola storia: non si colloca ai margini, ma nel cuore della vita. Se si volesse trovare il muro di separazione tra il vissuto di Paolo e la sua preghiera personale, si vedrebbe che non solo questo muro non esiste, ma semmai c’è un ponte che fa continuamente transitare la preghiera nella vita e la vita nella preghiera. Per questo Paolo non riesce a cominciare una lettera senza che immediatamente, appena dopo il saluto iniziale, la preghiera prenda a fluire dal suo cuore a fiotti continui, senza alcun doverismo coatto, senza autocostrizioni di sorta: questo, come sappiamo, avviene in tutte le lettere, tranne la lettera ai Galati. Ma è anche Luca che sorprende Paolo in flagrante preghiera: a Mileto quella sera l’Apostolo aveva appena finito di rivolgersi ai presbiteri di Efeso con un discorso che aveva tutto il sapore di un ultimo testamento, che il congedo si trasformava di schianto in preghiera accorata: “si inginocchiò con tutti loro e pregò” (At 20,36). Inoltre è da notare come è attraverso la preghiera che l’Apostolo si può mantenere “in rete” con i suoi collaboratori lontani, in missione, e con le varie Chiese disperse nella mappa dell’impero romano. Ma la preghiera permette a Paolo anche di rileggere le storie di comunità e persone come pure la grande storia della salvezza, intercettandovi in filigrana l’azione meravigliosa di Dio, il suo disegno d’amore, l’appello che egli non si stanca di rivolgere ai suoi figli. E così i vari problemi che l’Apostolo deve affrontare, vengono da lui afferrati e ricondotti al centro pulsante del vangelo – Cristo crocifisso e risorto – e così ricevono una soluzione obiettivamente “cristiana”. Si veda ad esempio il problema dei partiti che affligge la giovane comunità di Corinto. La domanda che Paolo rivolge ai suoi interlocutori, arriva come un lampo: Cristo è stato forse diviso? (1Cor 1,13) Questo perché nella preghiera l’Apostolo ha assimilato la logica del vangelo di Cristo, al punto da poter scrivere, senza timore di andare sopra le righe: Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo (1Cor 2,16) o anche: in me c’è la verità di Cristo. (2Cor 11,11)

… è trinitaria

3.3. La preghiera di Paolo è una preghiera cristiana, poiché è profondamente trinitaria: rivolta al Padre per Cristo nello Spirito. Yves Congar parlava di una preghiera regolata dalle “preposizioni teologiche”: a-per-in. Ci si rivolge ad Patrem per Filium in Spiritu Sancto. Destinatario ultimo della preghiera è sempre il Padre, che viene normalmente chiamato “Dio”, e, come ha dimostrato K. Rahner, in genere con questo nome si indica la prima persona della SS. Trinità. Ma il nome proprio di Dio, quello che Gesù ci ha rivelato, più che Padre, è Abbà, un nome dolcissimo, che nella lingua aramaica esprime la tenerezza filiale e la piena confidenza nei confronti di un Dio che lo Spirito Santo ci autorizza a chiamare nella stessa lingua materna del Figlio: Papà, Babbo caro. Quanto a Cristo, egli occupa nella preghiera un ruolo centrale, ma come mediatore. Rendere grazie al Padre “nel nome del Signore Gesù” non vuol dire pregare invocando il nome di Gesù con le labbra, ma significa pregare in Gesù, come figli amati e chiamati nell’unico Amato. Lo Spirito poi viene in aiuto alla nostra debolezza suggerendoci che cosa sia conveniente domandare, secondo i disegni di Dio (Rm 8,26-27). Lo Spirito è soprattutto colui che ci fa pregare “da figli”, liberi dalla paura e dall’angoscia, per arrivare a chiamare Dio col nome di Abbà, proprio come ha fatto Gesù (Gal 4,6 Rm 8,15).

… è eucaristica

3.4. Un altro carattere della preghiera secondo Paolo è quello che si potrebbe chiamare la sua tonalità eucaristica: la spia per intercettare questa tonalità di fondo ci viene offerta dalle stesse parole usate dall’Apostolo. Come sappiamo, in lungo e in largo egli usa verbi quali “ringraziare” e “benedire”: il primo viene reso in greco con eucharistein, e basta fare una retroversione del secondo in ebraico per risalire alla beraka, la più alta e solenne preghiera di Israele. Ad essere preferita dall’Apostolo è appunto questa preghiera di lode, con cui si esprime la gratitudine stupita e commossa al Padre per il suo amore gratuito, sconfinato, preveniente; un amore sproporzionatamente misericordioso nei confronti della nostra miseria. Come si può vedere rileggendo i brani citati al punto 3.1., s. Paolo ringrazia o meglio rende grazie e invita i cristiani di Tessalonica a fare altrettanto: In ogni cosa rendete grazie (eucharisteite). (1Ts 5,18) Molto forte anche l’espressione che si trova nella Lettera ai Colossesi, che in greco suona: eucharistoi ghinesthe, e che letteralmente si dovrebbe tradurre: “siate eucaristici”, mentre la CEI rende semplicemente con siate riconoscenti (Col 3,15). Se espressioni del genere non vanno intese come riferite ad un atto cultuale specifico (vedi la celebrazione eucaristica), certamente stanno a significare molto di più che un semplice dire preghiere di ringraziamento. Indicano piuttosto una caratteristica del cristiano, una maniera di essere, di rapportarsi al mondo e agli altri, avendo sempre presente l’amore gratuito del Padre in Cristo e nel dono del suo Spirito, tanto che l’espressione di Col 3,15 può essere tradotta, secondo un esperto come padre Aletti: “vivete nell’azione di grazie”.

… è umile e fiduciosa

3.5. Ma Paolo sa bene, per esperienza diretta, che l’atteggiamento filiale di totale fiducia nei confronti di un Dio che in Gesù ci è diventato Padre-Abbà, si esprime anche nella preghiera umile e fiduciosa di domanda, di invocazione, di supplica. E’ la preghiera che nasce dentro la prova, allorché si avverte la sofferenza, il tormento e l’angoscia. Una esemplare testimonianza ci è data da quanto Paolo stesso confida ai cristiani di Corinto. (2Cor 12,9-10) L’Apostolo sta sperimentando una penosa spina nella carne. Non sappiamo di preciso in che consista, ma certo doveva trattarsi di un grave, umiliante ostacolo che gli era di impedimento al ministero apostolico, per cui egli chiede a Dio per ben tre volte di esserne liberato. Ma si sente rispondere: Ti basta la mia grazia: la mia potenza si manifesta appieno nella debolezza. Paolo invoca la liberazione dall’impedimento, e invece scopre ancora una volta la logica “illogica” della croce: Dio si fa presente proprio nella debolezza. Ma l’atteggiamento che deve sorreggere ogni preghiera di supplica è una fiducia senza riserve dei figli nell’amore senza riserve del Padre: Egli che ha donato il proprio Figlio per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? (Rm 8,12) Perciò i fedeli di Filippi non si devono angustiare per nulla, ma in ogni necessità – raccomanda il loro padre nella fede – esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e – aggiunge a sorpresa! – ringraziamenti (Fil 4,6), quasi a dire: quando chiedete, non dimenticate mai di ringraziare per ciò che già avete e non lo avevate chiesto.

… è contemplativa

3.6. Come sappiamo, il momento di svolta nella vita di Paolo è stata la “illuminazione” di Damasco. L’Apostolo che non ha conosciuto Gesù di Nazaret nella sua vita terrena, lo ha visto risorto, al punto da gridare strabiliato: Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù Signore nostro? (1Cor 9,1). Quella di Damasco è stata una vera esperienza contemplativa, che lo ha segnato per tutta la vita. Al ripensarci ad anni di distanza, afferma stupito: E Dio che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (2Cor 4,6). A differenza dei “figli di Israele” che non riescono a contemplare il volto di Cristo riflesso nelle Scritture perché un velo permane non rimosso alla lettura dell’Antico Testamento, per i cristiani quel velo è stato eliminato, e perciò noi tutti, a viso scoperto, riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore. (2Cor 3,18) Certo, noi ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa (1Cor 13,12), ma non siamo ciechi, perché siamo stati illuminati nel battesimo e possiamo contemplare, anche se non ancora “faccia a faccia”, il volto del Padre riflesso nel volto del Figlio suo risorto. In fondo non è stato proprio questo il peccato dei pagani, che pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria? Infatti dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute. (Rm 1,20-21). Se è possibile la contemplazione del Dio creatore attraverso la luce della ragione, non sarà possibile ai credenti la contemplazione di Dio Padre nel Figlio con gli occhi della fede?

… è mistica

3.7. A questo punto, ci poniamo un’ultima domanda: l’esperienza contemplativa di s. Paolo si può definire una esperienza veramente mistica? La risposta è scontata: senz’altro! L’Apostolo stesso lo confessa, quando parla di visioni, rivelazioni, estasi. (2Cor 12,1ss) Ma se fosse “mistica” solo in questo senso straordinario, la preghiera di Paolo sarebbe per noi un’esperienza certamente attraente, ma non certo imitabile. C’è però da osservare con E. Bianchi che “per restare nel registro del ‘vedere’ a cui rinvia il contemplare, potremmo dire che la contemplazione cristiana è anzitutto un ‘essere visti da Cristo’, non un ‘vedere Cristo’. (…) Recuperare questa semplicità ed essenzialità significa ricordare che la contemplazione nasce dall’ascolto: essa si fonda sul primato della Parola di Dio nella vita del cristiano”. La contemplazione infatti non è un fine della vita cristiana, ma un mezzo per conseguire il carisma più grande, la carità. (1Cor 13,13). Finché siamo in pellegrinaggio verso la patria, ciò che più conta è tendere all’unione trasformante, alla piena comunione mistica con il Signore, in modo da poter dire con Paolo: Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. (Gal 2,20) Ciò che più conta è riflettere come in uno specchio la gloria del Signore, per poter venire trasformati in quella medesima immagine, secondo l’azione dello Spirito del Signore in noi. (2Cor 3,18)

Confesso a voi, fratelli

4. Vedo che questa lettera sta diventando un po’ troppo lunga. Se ti sei stancato, caro Confratello, puoi fermarti anche qua. Ma, se permetti, prima di concludere, vorrei dirti con la massima semplicità di cui sono capace, qualcosa che riguarda la mia esperienza personale in fatto di preghiera. Dopo che mi sono specchiato nella preghiera di s. Paolo, ecco che cosa ne ho ricavato.

“Francesco, mi ami tu?”

4.1. Il servizio apostolico – lo diciamo spesso – è amoris officium, un compito d’amore. Questo significa che essere apostoli è vivere una vita, non tanto esercitare un ruolo o avere un lavoro. Essere pastori non è lo stesso che fare i professionisti della pastorale. Debbo ricordarmi continuamente che il primo motivo per cui Gesù ha scelto i Dodici non è stato quello di mandarli a predicare, ma perché stessero con lui (Mc 3,14s). La condizione imprescindibile posta da Gesù a Simone di Giovanni per affidargli le sue pecore non è stata se Pietro era il più colto tra gli apostoli o il più capace di coordinare gruppi di studio o di organizzare iniziative pastorali, ma: Mi ami tu? (Gv 21,15ss) Come vostro Vescovo, non posso mai dimenticare che il Signore non pretende da me delle prestazioni sempre più ardue né il mio primato in classifiche sempre più selettive; vuole semplicemente la mia umile, gratuita fedeltà; insomma ha sete del mio amore. Questo da una parte mi inquieta, anche se non mi avvilisce, e dall’altra mi dà pace.

Cominciare la giornata pregando

4.2. Inoltre mi fa bene coltivare la coscienza che io, voi, i nostri fedeli – come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, con affermazione limpida e netta – siamo tutti chiamati all’intima unione con Dio (CCC 775; 2014). Se siamo “chiamati” è perché siamo amati, e se siamo amati, non possiamo fare gli indifferenti: dobbiamo rispondere alla chiamata. La preghiera è la prima risposta. Se non prego, prima o poi mi riduco allo stadio terminale. Perciò devo difendere con le unghie e con i denti la mia ora di adorazione al mattino. L’esperienza di anni mi fa dare ragione a D. Bonhoeffer:

“Quando si è riusciti a dare una unità alla propria giornata, questa acquista ordine e disciplina. E’ nella preghiera del mattino che bisogna cercare questa unità, e così potrà essere trovata nel lavoro. La preghiera del mattino decide della giornata. Il tempo sprecato, le tentazioni alle quali soccombiamo, la pigrizia e la mancanza di coraggio nel lavoro, il disordine e l’indisciplina dei nostri pensieri e delle nostre relazioni con gli altri, hanno molto spesso la loro origine nel fatto che si è negligenti nella preghiera del mattino”.

Io “sono pregato”

4.3. Quando entro in adorazione, mi aiuta la certezza che la preghiera è un dono, prima che un dovere; è una grazia da accogliere, più che uno sforzo spossante da impormi. Più che una mia attività, è una azione dello Spirito Santo in me; più che un mio slanciarmi verso il Padre, è un lasciarmi prendere tra le sue braccia. Nella contemplazione i verbi vanno coniugati al passivo, più che all’attivo: dovrei dire non “io prego”, ma “sono pregato”, nel senso appunto che è lo Spirito di Gesù risorto che ora sta pregando in me. Questo pensiero mi aiuta ad entrare nella preghiera con mitezza, senza dover stringere i denti e spremere i muscoli.

Preghiera, questione di cuore

4.4. Dal mio veloce check-up sulla preghiera con il test di s. Paolo, mi rendo conto che per me la preghiera è ancora troppo cerebrale e troppo poco affettiva. Me lo diceva il padre spirituale del seminario: la contemplazione non è questione di scatola cranica, è questione di cuore. Per questo mi aiuta a rimanere in quota la “preghiera del cuore”: prendere la corona e, davanti al SS.mo nella cappellina dell’episcopio, ripetere alla sazietà qualche breve litania, tipo: “Signore Gesù, abbi pietà di me peccatore”, “Al mattino, o Dio, fammi conoscere il tuo amore”, o recitare qualche giaculatoria di quelle imparate da bambino, come per es.: “Dolce cuore del mio Gesù, fa’ che io t’ami sempre più”. Questa preghiera del cuore sento che ha una ricaduta marcata nel campo degli affetti e delle relazioni. Nella Summa Theologica san Tommaso ha lasciato scritto che il Padre Nostro “dà forma a tutta la nostra vita affettiva”. (II-II, q.83, a.8) E’ vero: se pregare è lasciarsi amare, se contemplare è non stancarsi di chiedere al Signore il dono della contemplatio ad amorem (s. Ignazio), allora la mia castità non si ridurrà ad una somma algebrica di esercizi più o meno riusciti di autocontrollo. E ne risulterà chiarificato e pacificato anche il mio rapporto con la comunità. Non sarà un rapporto morboso di dipendenza reciproca. Nella preghiera lo Spirito d’amore mi farà recuperare libertà e serena fortezza, perché mi ricorderà ogni volta che ce ne sarà bisogno – e sarà spesso! – che il ministero ordinato è centrale nella comunità, ma il centro della comunità non è il ministro ordinato. Perché se la comunità è la sposa del Signore, io non sono lo sposo, ma l’amico dello Sposo, un amico che coltiva una sola gioia, che Lui cresca e io diminuisca. Un amico dello Sposo che prova una sola gelosia, una gelosia divina: quella di aver promesso la comunità a un unico sposo, per presentarla quale vergine casta a Cristo. (2Cor 11,2) San Tommaso scrive che, quando concupiamo, guardiamo l’altro come il leone guarda il cervo, come un pasto da divorare. Ma questo non è lo sguardo del pastore che prega e nella preghiera ama il Signore nella comunità, ma lo ama sempre al di sopra della comunità. Vi confesso: è stato questo sguardo che mi ha aiutato nei vari trasferimenti (ben sette!) a voler bene alle persone di volta in volta affidatemi, senza legarle a me, e ad andare dove Dio mi chiamava, “incerto di me stesso, ma sicuro di Lui” (Lacordaire).

Quando il pastore è… Benedetto

4.5. Infine c’è una pagina dell’allora card. Ratzinger, che mi piace riportare integralmente:

“Non è necessario che il vescovo sia uno specialista in teologia, ma egli deve essere un maestro di fede. Ciò suppone che sia in grado di vedere la differenza tra fede e riflessione sulla fede: in altre parole deve possedere il sensus fidei… In breve, si potrebbe dire che il discernimento fra dato della fede e riflessione sulla fede è il compito del vescovo. Ma come si può ottenere questo dono del discernimento? La condizione fondamentale per la capacità del discernimento consiste nel senso della fede, che diventa occhio; il senso della fede si nutre della prassi della fede; l’atto fondamentale della fede è la relazione personale con Dio: ‘con Cristo, nello Spirito Santo, al Padre’. Quali sono i modi più importanti di questa relazione personale partecipata con Dio? Il modo fondamentale di una relazione personale è il colloquio, il dialogo. Sarebbe insufficiente però se dicessimo che il colloquio con Dio si chiama preghiera, perché il dialogo esige reciprocità; non solo la nostra parola, ma anche il nostro ascolto. Senza ascolto il dialogo si riduce a monologo. Ecco perché noi ascoltiamo la voce di Dio ascoltando la sua Parola consegnataci nella sacra Scrittura. Sono infatti convinto che la lectio divina è l’elemento fondamentale nella formazione del senso della fede, di conseguenza l’impegno più importante per un vescovo maestro della fede. La lectio divina è ascolto di Dio che parla a noi, che parla a me. Questo atto di ascolto esige quindi una vera e propria attenzione del cuore, una disponibilità non solo intellettuale, ma integrale di tutto l’uomo. La lectio divina deve essere quotidiana, deve essere il nostro nutrimento quotidiano, perché solo così possiamo imparare chi è Dio, chi siamo noi, che cosa significa la nostra vita in questo mondo”.

No comment.

Ecco, adesso che ho veramente finito, mi viene in mente che domani ricorre la memoria del s. Curato d’Ars. Mi ricordo del luminoso brano sulla preghiera nell’Ufficio delle Letture, e, dopo che l’ho riletto, mi verrebbe da dire: ma anziché scrivere questa lunga lettera sulla preghiera, non era meglio proporre ai Confratelli di sostare in meditazione su quel brano veramente ispirato? Forse sì, ma resisto alla tentazione di cestinare quanto ormai ho scritto e ve lo invio lo stesso, chiedendovi però di perdonarmi se ho osato troppo.

Vogliate ora gradire il mio saluto cordialissimo, accompagnato da un fraterno abbraccio e da una grande benedizione

aff.mo nel Signore

X Francesco Lambiasi

“Casa Betania” – Veroli, 4 agosto 2008,

memoria del s. Curato d’Ars

Altre notizie