Le badanti straniere tornano a casa, si fanno avanti le italiane


Le incontriamo tutti i giorni al Parco Cervi a chiacchierare con le amiche su una panchina nella loro pausa pomeridiana di due ore, o al Parco della Cava ogni pomeriggio verso le 15 a cantare. Fanno la coda agli sportelli per cercare lavoro, oppure si occupano già di accudire i nostri genitori e i nostri nonni. Vengono dall’Europa dell’Est, ma recentemente anche dall’America centrale e dal Nord Africa. Sono le assistenti familiari, donne molto forti che di fronte ad un paese d’origine in difficili condizioni occupazionali hanno lasciato casa e famiglia e sono venute in Italia nella speranza di uno stipendio. La maggior parte di queste donne, specialmente ucraine e rumene, sono partite da sole, senza marito né figli, spesso piccoli.
È il caso di Ludmila, una signora di 46 anni che 10 anni fa ha lasciato l’Ucraina, oltre ai figli di 8 e 14 anni. “Sono cresciuti con i miei genitori, perché sono divorziata e mio marito se ne era andato. Poi però i nonni sono morti e ora stanno con la zia. Ogni mese mando loro i soldi per l’affitto”. Quando è arrivata per la prima volta in Italia ha vissuto in Calabria, “solo che la distanza dai miei figli era troppo dura, mi chiamavano ogni giorno piangendo, soprattutto il piccolo che mi chiedeva quando torni mamma? Quando torni mamma?”.
Così dopo due anni Ludmila è ritornata in Ucraina e ha aspettato che i figli crescessero un po’ prima di ripartire, questa volta per Rimini. Nonostante gli anni passino non ci si abitua mai davvero alla distanza dai propri figli, soprattutto quando non si può vederli crescere, attraversare l’infanzia e l’adolescenza. “La figlia più grande ora è fidanzata e vuole rimanere là. Il piccolo invece fa il muratore e vorrei portarlo qui, ma serve avere tutti i documenti a posto”, ovvero il permesso di soggiorno per poter richiedere il ricongiungimento familiare. Per fortuna la tecnologia aiuta, infatti ogni giorno si sentono via Skype (il software per poter chiamare e chattare gratuitamente) e li incoraggia dicendo loro “fatevi forza, la mamma deve guadagnare dei soldi”. Inoltre ha stretto molte amicizie con altre badanti, come sono solite fare le straniere con le loro connazionali, dato che sono tutte per lo più sole in Italia.
“Il lavoro da badante è molto pesante, per cui mi piace distrarmi andando in bici con le amiche, soprattutto a fare foto. Mi piace molto questa terra e vorrei far visitare i bei posti della Romagna ai miei figli”. Maria, anche lei ucraina, ora si dice contenta perché si è sposata a Rimini con un italiano che la rende felice. Il suo passato però è stato travagliato, infatti ha un figlio avuto in Ucraina che ha lasciato quando era ancora piccolo e che non ha visto per ben 6 anni: “Lo vedevo solo attraverso le foto che mi mandavano. Non potevo tornare perché sono arrivata nel 2002 subito dopo la sanatoria che aveva concesso i permessi di soggiorno. Ho dovuto aspettare altri 5 anni prima di ottenere i documenti necessari. Nel frattempo dovevo rimanere in Italia”. All’epoca non c’erano chiamate gratis via internet né smartphone, per cui spendeva in media 240 euro al mese solo in telefonate. La separazione dal figlio per così tanto tempo, oltre che dolorosa, è stata deleteria per il loro rapporto: “Quando sono tornata per la prima volta dopo sei anni non è voluto venire a prendermi all’aeroporto. Ancora oggi non riesce a chiamarmi mamma, mi chiama per nome. In quei quattro mesi in cui sono stata in Ucraina, però, me lo sono un po’ riconquistato, siamo diventati amici, però non siamo più riusciti ad instaurare il tipo di rapporto madrefiglio”.
È andata diversamente a Denisa, una ragazza di 24 anni che, quando ne aveva 11, ha visto partire il padre per la Striscia di Gaza e la madre per l’Italia in cerca di lavoro. Nonostante la distanza, è riuscita a mantenere un legame stretto con tutti e ora si sono ricongiunti in Italia. “Mia madre è venuta da sola. Ancor prima del cercare lavoro, la difficoltà principale per lei è stata gestire la distanza con la famiglia. Io ero piccola, però mi sentivo già grande e quando parlavamo al telefono ero io a confortarla. Sentivo che le tremava la voce e le dicevo di smetterla. Non avevo bisogno di essere confortata”.
Denisa confessa di non aver sofferto troppo il distacco inizialmente: “Ero molto presa dalla scuola e dallo sport. Ed ero soprattutto preoccupata per mio padre che lavorava in una zona delicata come la Palestina. Ogni tanto però sentivo la mancanza di una figura di riferimento al mio fianco, soprattutto in casi difficili come i lutti familiari. Dopo due anni io e mio padre siamo venuti in vacanza a trovarla e abbiamo capito che non potevamo più stare distanti. Quella non era più una famiglia. Rischiavamo di mandare tutto a rotoli”.
Anche Nadia, 56 anni, ha lasciato in Ucraina i figli, che però erano già grandi. Solo che in questi 7 anni a fare la badante fra Roma, Sorrento e Rimini non ha potuto veder nascere e crescere i suoi nipoti: “Per fortuna li posso vedere tutti i giorni in webcam, grazie a internet. Mi mancano tantissimo”.
Maria è una vedova con due figli in Polonia e la sua difficoltà principale per ora è il lavoro. Non ha uno stipendio da 8 mesi: “Sono disposta a tutto, anche cambiare città: Imola, Forlì, Fano…mi basta guadagnare per aiutare i miei figli”. Lei è una di quelle che soffrono la competizione delle italiane che, rimaste senza lavoro, sono tornate ad accudire gli anziani. Alcune donne, invece, riferiscono che talvolta i problemi più grandi li si lascia in patria dove è molto diffuso l’alcolismo, soprattutto nei paesi dell’est, che coinvolge i mariti a casa soli con i figli.
I numeri
Al mercato dell’assistenza familiare sembra mancare una banca dati unica delle offerte di lavoro. Secondo lo sportello Collaboratori domestici – Acli “un tale sistema permetterebbe di controllare meglio la qualità del servizio e seguire negli anni il curriculum delle singole professionalità. Dopotutto le famiglie sono come una grande ditta che dà lavoro”. I principali uffici ai quali le badanti possono rivolgersi sono il Centro per l’impiego, le Acli e la Caritas. Molte ottengono il lavoro con il passaparola, anche se talvolta può costare ingiustamente qualche centinaio d’euro. Una badante romena racconta di aver dovuto versare una mensilità (750 euro) ad un’altra che le avrebbe lasciato il posto. Una pratica illegale oggi sempre più scoraggiata grazie alla maggiore esperienza delle donne straniere più familiari con le normative.
Le Acli di Rimini hanno gestito negli ultimi 4 anni oltre 2.000 badanti, e se agli inizi le italiane erano un terzo delle ucraine e delle romene (i due gruppi più numerosi), quest’anno le nuove iscritte riminesi sono di più: 61 contro 52 e 50. Si sono presentate anche moldavi (29), albanesi e russi (18), peruviani (15), bulgari (10), marocchini e polacchi (9) e altri ancora.
La maggior parte tra i 40 e i 60 anni, per un totale di 420 persone (di cui solo 6 gli uomini). Ma la crisi ha intaccato persino questo settore, costringendo molte badanti a convertirsi in cameriere stagionali. Solo 91 sono state le proposte di lavoro pervenute ad oggi, contro le oltre 200 degli scorsi anni. Di queste, 65 si sono tramutate in contratti. Fra i motivi di insuccesso vi sono la mancanza di figure professionali con specifiche competenze infermieristiche e l’offerta di condizioni non accettabili per il lavoratore. Anche la Caritas registra una riduzione di assistenti familiari, passati nel 2012 a 657 contro gli 813 dell’anno precedente e il migliaio del 2010. Sono aumentati, invece, gli italiani, passati dai 112 del 2011 ai 145 del 2012. In diminuzione di 100 unità gli ucraini, da sempre il gruppo più presente.