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Educare alla libertà e all’autonomia

di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 5 minuti
mer 4 mar 2015 16:57
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Per Elisabetta Savorelli – per tutti “Betty” – si avvicina un traguardo difficile e importante: quello della pensione. Oltre 40 anni dedicati con dedizione e pazienza al lavoro educativo. Oltre 40 anni spesi a servizio dell’Istituto San Giuseppe (oggi Fondazione) prima come educatrice dei servizi per minori e dal 1985 come responsabile del Centro diurno per disabili “La Sorgente”.

 

Elisabetta è sposata con Piero, ha due figlie: Maura e Sara e tre nipotine: Giulia, Veronica e Lucia ma anche tanti figli di adozione: i ragazzi che ha incontrato in questi anni. Un carattere riservato, non ama apparire, è una donna concreta e determinata…per questo non possiamo non attingere dalla sua esperienza per conoscere meglio un pezzo della storia sociale riminese e della realtà del San Giuseppe.

 

elisabetta savorelli2Sono gli anni ‘70: com’è cominciata la sua collaborazione con l’allora “Istituto San Giuseppe”?

Avevo meno di 20 anni quando ho iniziato la mia collaborazione con l’Istituto San Giuseppe, era il mese di Giugno del 1973. Conoscevo lo stabile di via Madonna della Scala (allora sede dell’Istituto, oggi della Caritas – ndr) perché era stato sede della mia scuola media, ma non sapevo nulla delle attività dell’Istituto. Alle Magistrali ho incontrato Violetta, una mia compagna di scuola, che lavorava già all’Istituto San Giuseppe. Mi sono incuriosita e ho fatto domanda di lavoro. Mi ha ricevuta il Presidente di allora, Ciro Gliori, una persona ferma e decisa ma anche molto competente, che metteva un po’di soggezione. Io non mi sono fatta intimorire.
Il 4 giugno alle 2 del pomeriggio sono entrata in servizio. Mi dissero subito di andare dove c’erano le stanze dei bambini che stavano dormendo. A un certo punto esce un bimbo di 5 anni, Roberto, e mi dice: “Sei tu la nuova maestra?”. Sono entrata dentro e tutti i bambini facevano baldoria, cuscinate….
Pensavo: “Ma dove sono capitata?” ma con i bambini stavo bene, mi piaceva. Non ricordo di avere mai avuto paura o timore.
Ancora c’erano i grandi stanzoni in cui i bambini venivano accolti.
Sono stata io a promuovere stanze più piccole, insieme alla mia collega Aurelia. Ognuno doveva avere il suo cambio di vestiti nell’armadio, non un guardaroba comune…Volevo che i bambini potessero uscire, essere sempre più autonomi.

 

Il San Giuseppe è stato tra i promotori di quel processo che possiamo chiamare “deistituzionalizzazione”. Sono gli anni ’80, un periodo di grandi cambiamenti. Come li ha vissuti?

Certo, in quel periodo abbiamo trasportato nell’Istituto il fermento culturale che vivevamo nella società. Potremmo parlare di permeabilità, di osmosi tra l’Istituto e la città. C’è da dire che la realtà riminese del momento era molto viva, un clima culturale di grande dialettica: basti pensare a figure carismatiche come Don Oreste Benzi o ad esperienze come il CEIS e San Patrignano.
Io negli anni mi sono resa conto che la libertà in educazione è fondamentale. Questo non significa non dare dei paletti, anzi sono molto esigente e severa. Ma è importante evitare ogni forma di schematismo e rigidità.
Con i bambini all’inizio dovevamo andare nel cortile tutti insieme, tenerli tutti nello stesso posto a fare le stesse cose…ora mi accorgo che era una stupidaggine. Quattordici bambini non potevano avere nello stesso momento tutti la stessa esigenza!
Non è stato facile cambiare, c’erano delle colleghe che remavano contro e non davano spazio a questo cambiamento.
La presidenza e la direzione però mi hanno appoggiata e sostenuta.
Come dicevo, io sono stata subito molto colpita dalla figura di Aurelia Paris, che aveva il gruppo dei ragazzi più grandicelli, molto irrequieti. Lei riusciva a guardare, osservare, vivere i bambini autenticamente. Lei è stata la mia maestra, ho appreso tanto da lei.
Vedevo Aurelia con gli altri ragazzi e insieme cantavano, dialogavano…venivano anche i ragazzi del CEIS. Mi ricordo che ci hanno insegnato le ninna nanne toscane. Erano momenti molto belli.
Per il mio matrimonio mi hanno fatto una sorpresa: avevano preparato con la chitarra i canti per la celebrazione! Con Piero ci siamo sposati proprio nella Chiesa di via Madonna della Scala.
Avrei potuto trovare anche un lavoro in Comune (me lo propose mio padre) ma io sono voluta rimanere lì, al San Giuseppe.
Anche mia mamma è stata una fondamentale guida nella mia vita e nel mio lavoro. Quello che sono come professionista e come mamma oggi lo devo sicuramente a lei e alla sua grandezza.
Nei 12 anni che ho trascorso al “convitto” (come veniva chiamato allora il centro per l’accoglienza dei bambini e ragazzi) ho vissuto con i miei bambini tutte le loro attese e i loro dolori. I genitori che non arrivavano o si dimenticavano di venirli a trovare o telefonare, la sensazione che non ci fosse nessuno che li proteggeva…
Li sentivo parte davvero della mia famiglia e della mia vita, condividevamo tutto.

 

elisabetta savorelli3Poi nel 1985 l’inizio di una nuova esperienza: il centro per disabili “La Sorgente”.

Il passaggio alla Sorgente all’inizio è stato difficile, sofferto. Prima di lasciare il convitto ho voluto accertarmi di fare tutto il possibile per quei ragazzi, ho fatto in modo che tutti raggiungessero la terza media e ho continuato ad essere in contatto con loro, per esempio partecipando alle vacanze in montagna a Canazei.
Poi il rapporto con i ragazzi disabili de “La Sorgente” è stato ugualmente intenso ed arricchente.
Nessuno dei ragazzi con cui ho lavorato negli anni mi ha mai mancato di rispetto o si è rivoltato contro di me. Penso che abbiano sempre avuto un profondo rispetto nei miei confronti, perché sentivano probabilmente quanto io fossi la prima rispettarli e a credere in loro.
Nel dare vita a un centro per disabili molto gravi come “La Sorgente” abbiamo capito che questi ragazzi avevano bisogno di momenti dedicati e di un piccolo nucleo a gestione familiare dove vivere la vita di casa partecipando, come in famiglia, ai vari momenti della giornata.

 

Quale “testimone” sente di poter consegnare a chi prenderà il suo posto?

Sto cercando di passare a Daniele Stefanini, che prenderà il mio posto, tutte le mie competenze e il lavoro fatto sino ad ora perché possa viverlo al meglio.
“In questo lavoro ho creduto tantissimo, fino in fondo, voglio continuare a crederci.
Il regalo più grande è stato sentirmi dire dalla direzione della Fondazione: “Il tuo lavoro lo hai fatto bene, ora serve una persona che faccia quello che hai fatto tu…”.
Io in realtà dico a Daniele che ora gli trasmetto delle cose ma poi il lavoro dovrà farlo suo, cambiarlo, stravolgerlo, interpretarlo…
Lui ha studiato di più e penso che potrà dare moltissimo.
Sono stata però molto felice che persone come il Presidente Guido Fontana e il nostro coordinatore Maurizio Bertozzi abbiano riconosciuto positivamente il lavoro che ho fatto. Molta forza l’ho ricevuta anche dall’ex direttore, Francesco Soldati, mi ha spinto a fare sempre quello che credevo giusto senza farmi condizionare dal giudizio degli altri. Se penso a tutto il sistema di documentazione (recentemente funzionale anche al nuovo sistema di accreditamento) che ho cercato di inventarmi da zero per rendere sempre più funzionale ed efficace il lavoro della comunità, mi sento davvero orgogliosa.

 

Ci sono storie di ragazzi incontrati in questi anni o episodi vissuti che porta particolarmente nel cuore?

In 41 anni di lavoro per il San Giuseppe non ho mai pensato un giorno: “Uffa, oggi devo andare a lavorare!”. Questa è davvero una grande fortuna. Ho sempre creduto profondamente in questo lavoro, in tutto quello che faccio. Mi sono scoperta una persona forte, tenace…anche se non pensavo di esserlo.
Mi piace ricordare anche i ragazzi che non ci sono più, come Simoncino e Eros, ma che porto sempre nel cuore. Quando ripenso alla mia storia professionale mi dico: quanti figli ho avuto? Ancor oggi quando incontro qualcuno degli ex ragazzi non possiamo non abbracciarci. Poi ringrazio i colleghi e le colleghe, con cui ho condiviso un tratto di strada.
Il momento di passaggio che vivo in questo momento è difficile, ma cerco di viverlo con naturalità. E poi non ho il tempo di rendermi conto di cosa significa concludere il lavoro e andare in pensione, perché sono impegnatissima con le mie amate nipoti! Nella vita c’è sempre qualcosa che inizia e qualcosa che termina. Voglio vivere anche questo momento come un’opportunità.

 

A cura di Silvia Sanchini