Un esempio di Capodanno


Capita (a me spesso) di avere delle illuminazioni improvvise sul significato delle cose. Di certe canzoni, dei proverbi, delle preghiere. Una serie di parole in successione che, dette come una nenia, non si distinguono. Frasi che senti pronunciare da una vita e che pronunci anche tu, stanno lì, in attesa di essere capite, prima o poi. Chi sono i poveri di spirito? E i puri di cuore? Chi sono gli uomini di buona volontà? Io l’ho capito a 32 anni suonati, la sera di Capodanno.
Fino all’ultimo non avevamo deciso cosa fare. Una festa di sicuro. Ma come? Dove? Con chi? Come il Signor Scrooge del racconto di Dickens, mi sono venuti incontro i “fantasmi dei capodanni passati”. Vestiti di paillettes, cibo scadente (per non parlare della compagnia), scarpe scomode, l’ansia di doversi divertire a tutti i costi come se fosse, oltre che l’ultima serata dell’anno trascorso, l’ultima della vita. Alla Caritas di Rimini mi risponde una vocina gioiosa, è Suor Stefania.
“Buongiorno, vorrei chiedere se è possibile fare i volontari per il cenone di Fine anno lì da voi”.
“Certo! Ti segno subito! Quanti siete? Io e il mio ragazzo, Francesco” (un nome, una garanzia). Alle 18.30 siamo in via Madonna della Scala. Scopriamo che in tanti abbiamo avuto la stessa idea. Siamo in 27. Tutti giovani.
Non c’erano mai stati così tanti volontari. Ecco spiegata l’espressione di stupore di suor Stefania, Suor Assunta, Suor Elsa e Suor Angela appena ci hanno visti tutti assieme. Ognuno di noi sa perché è lì. Francesca è la più giovane, ha appena 20 anni, viene dal pesarese e dice che non aveva voglia di andare alla solita festa con gli amici, voleva essere utile.
Monia aveva già fatto la volontaria al pranzo di Natale (per la prima volta), voleva rivivere quelle “emozioni importanti”, fare in modo che “l’amarezza lasciasse il passo alla consapevolezza e il senso d’impotenza alla volontà di fare”, parole sue. Io sono lì per vedere se il mio cuore funziona ancora. Per vedere se ci posso stare in mezzo a tanta umanità così diversa da me, che me ne sto a casa mia, con le mie docce calde e le lenzuola pulite. Per vedere cosa posso fare proprio io, nel mio piccolo, nella mia città, per chi vive per strada, per chi non sa se mangerà anche
domani.
Arrivano gli ospiti. C’è chi saluta, chi accenna un sorriso, chi cerca di nascondersi. Forse perché, a forza di chiamarli invisibili, si sono convinti di esserlo. Le loro storie dicono che non lo sono. Ci sono i ragazzi rifugiati del progetto SPRAR, un pakistano e due nigeriani, due coppie di bulgari che vivono di elemosina, una famiglia cecena (padre, madre e due figli) ospiti fissi in Caritas da qualche mese. I loro due ragazzi si rendono utili facendo il “Giro nonni” e i “ciceroni” alla mostra dei presepi.
C’è una signora russa, coi capelli rosso fuoco, con le guance rosa e gli occhi che spariscono quando sorride. “Mia figlia è italiana”, dice orgogliosa. Ci sono marocchini, tunisini, egiziani. Il giovane seminarista rumeno di rito Greco-Cattolico Adriano, ospite da circa tre mesi in Caritas, tra qualche giorno si trasferirà a Cesena, per terminare il suo percorso verso il sacerdozio. C’è una famiglia dallo Zimbabwe di origine etiope: mamma, papà e tre bambini. Bellissimi. Sono qui perché in Zimbabwe hanno incontrato la dottoressa Marilena Pesaresi. Il loro bimbo più piccolo, 3 anni, è venuto in Italia per essere operato al cuore. Sta bene.
C’è anche un ragazzo, italiano, con la sua inseparabile cagnolina. Altro che invisibili. In Caritas stasera ci sono 100 persone, 100 storie diverse. Di fronte all’antipasto già impiattato, il pane nei cestini, l’acqua e le bibite, nessuno si serve prima che tutti siano seduti. Il mio cuore dà segni di vita. Io, volontaria per una sera, mi commuovo di fronte a tanta compostezza.
Le sorelle “figlie della carità di San Vincenzo De Paoli”, polso fermo da generale e tanta dolcezza, invitano tutti ad alzarsi per la preghiera di ringraziamento per chi ha preparato la cena. Dominique per questo cenone di Capodanno si è superato. Ravioli al sugo, cosce di pollo al forno con salsa alle cipolle ed olive, insalata, patate, panettone con pasticcini e gelato. In poco tempo la sala è pulita (serve essere in tanti) e si può iniziare a giocare a Tombola.
Il modo migliore per essere insultati a Capodanno è estrarre i numeri. Lo faccio io, appunto. Quattro giri: ambo, terna, quaterna, cinquina, decina e tombola. “Mescola!”, “Cambia mano!”, “Insomma, non ne tiri su uno buono!”, “Ma il 20 dov’è? Non c’è?”. Eh…cosa c’entro io? Comunque obbedisco e ad ogni numero estratto, mescolo energicamente il sacchetto blu. I premi sono stati ricavati dalle donazioni di generi alimentari da parte di privati cittadini: panettoni, torroni, pezzi di formaggio, datteri, pacchi di pasta, riso, tonno, ceci, fagioli, lonze, prosciutti, salami. Vincere qualcosa, insomma, significa riempire lo stomaco. I premi che non si mangiano non sono molto apprezzati. Un uomo ha vinto due pacchi di pasta, il premio torna indietro: “Come faccio a cuocerla se non ho una casa?”. Già. Viene cambiato con qualcosa di immediatamente commestibile.
Uno schiaffone gigantesco.
Poi ne arriva un altro.
Altrettanto grosso. Una ragazzina vince di nuovo. Si alza e viene a ritirare il premio, ma prende il microfono e dice: “Io ho già vinto prima. Questo premio lo voglio dare a chi non ha ancora vinto niente”. Il suo esempio è stato seguito da molti altri dopo di lei. Ho pensato ai miei capricci, alle mie pretese infantili e stupide. Avrei dovuto mettermi un casco da pugile per parare i colpi.
La mezzanotte
Come diceva San Vincenzo de Paoli alle prime suore della carità: “La figlia della carità si riposa cambiando lavoro”. Quindi praticamente mai. Le suore (abbiamo detto che suor Assunta il primo febbraio compie 90 anni?) premono per terminare la tombola almeno 5 minuti prima della mezzanotte perché, hanno preparato un video per aspettare l’anno nuovo. Si tratta della preghiera del Padre Nostro cantata in italiano e di una preghiera in lingua araba. Ascoltiamo e preghiamo che il 2014 sia un anno migliore. Per tutti, ma per qualcuno di più.
L’anno in Caritas è finito ed iniziato così, con le parole del Padre Nostro in italiano, arabo e rumeno. Significanti. Francesco e Daniele, nel frattempo, hanno trovato un pianoforte ed una chitarra. La festa continua. Risento le parole di Suor Stefania: “Fare festa con gli altri vuole essere un percorso educativo per i volontari e per gli ospiti. Nei prossimi giorni vorrei che vi chiedeste: Perché sono andata lì? L’ho fatto perché non sapevo cosa fare? Posso ancora dare la mia disponibilità?“.
Ho la faccia gonfia di cazzotti ma gli occhi lucidi di gioia. Il mio cuore palpita e “sfarfalla”. Funziona.
Lucia Renati
InformaCaritas
foto di Monia Succi