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Biglietto di sola andata? Società multietnica e integrazione

di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 4 minuti
mar 30 set 2014 15:55 ~ ultimo agg. 1 ott 12:12
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Di seguito proponiamo, dopo le recenti polemiche scatenate dalla foto di Silvia Sanchini della Moschea di Rimini, un interessante approfondimento di William Zavoli, Psicoterapeuta del Servizio Liberamente Coop. Il Millepiedi Rimini su un seminario di studio tenutosi a Rimini lo scorso sabato 27 ottobre proprio sui temi dell’educazione e dell’apprendimento in contesti multiculturali.

 

Sabato 27 settembre presso il Palazzo della provincia via D. Campana, l’Istituto di Psicoterapia Relazionale di Pisa con sede a Rimini ha organizzato un seminario di studio presieduto dal vice direttore Dott. Dario Capone con la partecipazione di Alain Goussot, docente di Pedagogia speciale presso l’Università di Bologna, pedagogista, educatore, filosofo e storico attento alle problematiche dell’educazione e del suo rapporto con la dimensione etica e politica.
Studioso degli aspetti interculturali e transculturali nei processi di apprendimento e di inclusione nei diversi contesti sociali, in una prospettiva eco sistemica, Goussot imposta il suo intervento a partire dalla propria esperienza personale di immigrato proveniente da un paese, il Belgio, estremamente “meticcio” .
Riporta anche alcuni dati sulle migrazioni che da soli fanno riflettere: in Italia ci sono circa 5.000.000 di immigrati, 800.000 bambini nelle scuole. La realtà italiana è una realtà “mosaico” ancor prima dell’arrivo dei migranti poiché da sempre c’è una migrazione interna ed esterna verso altri paesi: 26.000.000 di italiani espatriati dall’unità ad oggi, 4.000.000 di cittadini italiani all’estero attualmente. Un flusso migratorio verso l’estero che ultimamente è ripreso.
La migrazione fa parte della storia del nostro paese in termini di identità nazionale e influenza il rapporto con gli immigrati in Italia. Gli italiani sono emigrati per questioni di lavoro (a differenza di altre popolazioni europee che si sono dirette verso le proprie colonie) ed il vissuto dei nostri migranti, è stato, ed è molto simile a quello di chi arriva in Italia.

 

Alain GoussotTutto ciò dovrebbe suscitare comunanza, ma non è sempre così; nell’incontro con l’altro c’è la necessità di catalogarlo, nell’incontro c’è angoscia, sostiene G. Devereux, antropologo e etnopsicoanalista francese del secolo scorso, il cui lavoro è alla base di un recente libro di Goussot.
I temi dell’emigrazione sono la partenza, il viaggio, le aspettative, l’inserimento, la ridefinizione di sé. Una persona che decide di partire non è già più la persona di prima, cambia la sua identità. Identità che è sempre un processo di relazione: ognuno si definisce in base all’immagine di sé che gli restituiscono gli altri. Il rischio che si corre quando si parla di identità nei processi migratori è la concezione unidimensionale, un iperinvestimento sull’identità. Identità non significa identico, non è un aspetto statico o un dato assoluto. C’è il rischio di vedere solo un lato dell’identità, che invece si configura come un sistema molteplice e complesso che pur nei cambiamenti permette di mantenere una “connessione con sé”, di orientarsi con nuove mappe mentali senza abbandonare le vecchie. Nelle situazioni di stress culturale o addirittura di traumatismo psico-culturale (pensiamo alle condizioni i cui avvengono certe attuali migrazioni), la connessione si interrompe e i cambiamenti non producono più senso ma confusione, disorientamento fino alla patologia. Questo è valido per ogni attore dell’incontro (anche per il nativo) e per il senso che dà alla propria traiettoria di vita; il problema non è essere straniero o lo straniero, ma sopraggiunge quando le persone diventano estranee a se stesse: non connesse con sé e il proprio percorso, disorientate.
E’ necessario non perdere di vista la dinamicità del vissuto della persona, la sua storia reale, dentro la quale ci sono gli elementi culturali di origine, ma anche le contaminazioni avvenute attraverso un processo di acculturazione anche se brutale. Dal punto di vista del metodo e della clinica Devereux propone di evitare di “etnicizzare” la terapia, perché convinto che nei processi di sofferenza mentale avvenga addirittura una “deculturalizzazione” dei tratti culturali: esiste secondo lui una unità psichica dell’essere umano in cui la psicologia del profondo e le emozioni sono universali, ciò che cambia è il filtro culturale che ne media le manifestazioni. Certo il terapeuta, o l’operatore che sia, deve conoscere il mondo culturale da cui viene il paziente, ma deve evitare di sostituire al racconto della persona le proprie categorie di classificazione comprese quelle culturali. A volte si mette uno schermo per difendersi dall’altro, a volte quello che si prova è un ostacolo al contatto. E’ necessario fare un’opera di decentramento, esercitare la funzione autoriflessiva, di osservazione e analisi del nostro comportamento durante il percorso di cura (o conoscenza che sia) dell’altro e delle nostre strutture relazionali.
Concetti questi già propri dell’approccio sistemico, nato in un paese multietnico come gli Stati Uniti, i cui maestri sono emigranti e che, soprattutto, basa il suo modello sul concetto di contesto inteso come sistema di rappresentazioni, più o meno condivise, in base al quale gli attori sociali costruiscono il mondo circostante all’interno del quale compiono azioni e intrattengono rapporti. L’adeguamento della tecnica al contesto non è dato una volta per tutte, ma chiama in causa la singolarità delle diverse situazioni. Il cardine del modello consenziente, anch’esso proveniente dalla tradizione sistemica, è la relazione con l’altro, non solo quello che si fa, ma tutte le azioni che lo rendono possibile, gli incontri e il riconoscimento reciproco.

In quest’ottica anche psicoterapia, come tutte le relazioni d’aiuto, è un viaggio transculturale: viaggio attraverso le culture del paziente e del terapeuta, viaggio che cambia le premesse su cui i due basano le proprie convinzioni. Riconoscere in sé come in chi abbiamo davanti la capacità di produrre cultura, vuol dire riconoscere nell’altro la stessa umanità che si riconosce a se stessi, non solo in psicoterapia.

Per questo motivo per avvicinarsi all’altro, secondo Devereux, sarebbe meglio partire da cose che accomunano, piuttosto che da ciò che differenzia. A volte per favorire la conoscenza di chi è immigrato si è portati a chiedergli di “raccontare o portare qualcosa della propria cultura”, ma spesso chi abbiamo di fronte ha già modificato la sua identità culturale in virtù della sua stessa migrazione e almeno in parte aderisce ad alcuni aspetti della cultura che lo ospita. Non vuole essere, poi, così “diverso”. In realtà solo una volta che si è riconosciuto quanto c’è in comune si possono iniziare ad apprezzare le differenze. Gregory Bateson (un dei padri dell’approccio sistemico) sosteneva anche che la differenza fra “questo” e “quello” non sta in questo o in quello, ma nel loro rapporto. Ogni “noi” prende forma da uno o più “loro”, non rimanda a una sostanza (la cosiddetta identità culturale, per esempio) ma a una differenza, e insieme a una relazione intesa come azione di confronto. La rappresentazione di “loro” è pertanto in qualche misura anche la rappresentazione di “noi”.