Urbanistica consensuale tra pubblico e privato. Le riflessioni del sindaco


la pena isolare un elemento del dibattito che, nelle ultime due settimane, ha accolto la presentazione delle proposte progettuali di riqualificazione del lungomare: il rapporto pubblico-privato o, tecnicamente, la cosiddetta ‘urbanistica consensuale’.
Si tratta di un tema ampiamente al centro della discussione internazionale; ricopre un ruolo strategico e urgente sul presente e sul futuro di ogni territorio. Uso l’aggettivo urgente anche per sottolineare un aspetto relativamente recente del problema: il capitale pubblico non è più in grado di finanziare in toto le opere infrastrutturali necessarie. C’è dunque un confronto vero, ‘caldo’ e generalizzato e Rimini non può sottrarsene, consolidando un’opinione anche facendo leva sull’esperienza diretta.
Alcuni interventi sui project del lungomare apparsi negli ultimi giorni sulla stampa locale possono così sintetizzarsi: le proposte sono anche accettabili, il problema è che lì vengono pensate opere che macinano denaro, siano esse alberghi, negozi o pubblici esercizi. Non è solo lo stile a determinare il merito e il consenso ma la funzione di quanto proposto: se nella torre sta un museo o un generico ‘luogo d’incontro’ è bene perché si esalta il concetto di pubblico, altrimenti è male perché il privato vuole accumulare denaro incentivando la voracità consumistica della società. E’ un concetto manicheo che volutamente non s’interessa di aspetti decisivi (cfr. la citata impossibilità economica del pubblico a garantire interventi consistenti, le problematiche gestionali) ma non per questo è privo di capacità di attrazione. A Rimini, poi, assume tonalità più forti perché pesa notevolmente un passato contraddittorio sul fronte della crescita urbanistica. Chi ha reso possibile la riminizzazione? Perché il privato prevale (prevarica) la componente pubblica? E’ stato adeguatamente tutelato l’interesse pubblico in operazioni antiche e recenti? Vengono rispettate le vocazioni territoriali? Sono domande che appartengono al confronto locale come di quello più vasto. Ma sono domande inevitabili alle quali va data risposta. Io ne individuo due possibili:
1) Continuiamo a pensare all’urbanistica come l’esercizio di pianificazione unilaterale da parte dell’Amministrazione pubblica, espressione di un potere di supremazia che in nome della cura di un generico interesse pubblico impone vincoli e limiti all’azione dei privati, orientandone l’attività esclusivamente attraverso divieti e prescrizioni. Si nega pertanto che anche attraverso la partecipazione del privato interessato dalle trasformazioni previste dai piani di programmazione urbanistica si possa raggiungere il miglior assetto di utilizzo del territorio in un’ottica di utilità generale per la collettività. Ne consegue che per la realizzazione di significativi interventi infrastrutturali gli Enti locali agiscono su quella che rappresenta ormai l’unica ‘fonte di sostentamento’ possibile: la tassazione. A questa si può aggiungere il rafforzamento del sistema di intercettazione di contributi UE e statali. In subordine, teorizzare una politica dei ‘piccoli passi’ in cui viene scartata qualunque possibilità di mettere in campo operazioni consistenti di riqualificazione del territorio o di realizzazione di nuove infrastrutture, optando per programmi minuziosi di cosiddetta ordinaria manutenzione;
2) Perseguire un efficace e ordinato assetto del territorio, attraverso una complessiva ed equilibrata ponderazione degli interessi in campo, anche privati, esercitando una pianificazione rigorosa e partecipata e applicando strumenti avanzati e trasparenti (che lascino al pubblico la decisione finale sul cosiddetto interesse collettivo) quali project financing, società di trasformazione urbana, fondazioni per lo sviluppo, accordi di pianificazione.
Il mio gradimento è per la seconda soluzione, indicata peraltro dal programma di mandato 2006/2011. Credo che il nodo centrale sia l’attivazione di procedure trasparenti e l’esercizio coraggioso e lucido delle responsabilità di governo. Il project financing è una procedura trasparente che non ha conclusioni determinate se non si ravvisa l’equilibrio tra interesse pubblico e quello privato (vedi, operazione piscina nell’area Ghigi conclusasi con un nulla di fatto in quanto non si ravvisava nella proposta un interesse per la collettività): Stessa cosa per i bandi di gara a evidenza pubblica: (vedi il buon esito dell’operazione ‘Polo della salute e del benessere’). Certo, anche il percorso più chiaro non mette al riparo dal refolo della diffidenza, ma questo ovviamente non deve penetrare nel dibattito politico, sino a prova contraria. Soprattutto non deve essere il grimaldello per aprire la porta a veri e propri processi alle intenzioni.
Di per sé non è vero che ‘pubblico è bello, privato no’ e neppure il contrario. Occorre sempre più entrare dentro ai problemi per risolverli o scartarli; occorre sempre di più essere trasparenti nelle procedure e cristallini nei giudizi. L’architettura per definizione si porta dietro una filosofia di vita e di visione del mondo ma non per questo deve essere ideologica. Dire che un edificio è deprecabile perché un monumento a un ‘turismo per ricchi’ significa forse individuare come unica strada percorribile l’architettura del socialismo reale, realizzata con solo denaro pubblico?
Alberto Ravaioli