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Coriano Rimini Social

Quarant’anni fa la prima casa famiglia. In un inedito la profezia di d.Oreste

di Redazione   
Tempo di lettura 6 min
Gio 30 Mag 2013 08:49 ~ ultimo agg. 16 Mag 15:37
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Don oreste scriveva queste parole nel Diario: ma ci vorranno ancora altri cinque anni perché l’idea, che all’inizio si sostanziava in una specie di ‘Pronto soccorso’ per gli ultimi, per i più bisognosi, trovi forma compiuta nella ‘Casa Famiglia’. E’ il 1972, infatti, quando il Cavalier Alfredo Floridi, Presidente della Fondazione “Madonna della Scala” di Rimini incontra per strada don Oreste e gli chiede se poteva essere utile alla Comunità un’abitazione che era in fase di ristrutturazione a Coriano. Don Oreste disse subito di sì, senza pensarci, come era solito (“Il bene prima si fa, poi si pensa”, era una delle sue massime) e siccome in quel periodo era a stretto contatto con tanti handicappati che si trovavano nella Casa di cura “Sol et Salus”, che manifestavano il desiderio di uscire dalla struttura per ‘fare famiglia’, chiese al Cav. Floridi che nella casa di Coriano fossero abbattute tutte le barriere architettoniche, perché fosse predisposta all’accoglienza di queste persone speciali.

Nel frattempo, una giovane riminese di nome Ida Branducci si era fatta avanti: voleva mettere la sua vita a disposizione degli ultimi e cercava un modo di vivere più corrispondente al Vangelo. Don Oreste e Ida, assieme ad un’altra ragazza di nome Grazia, avevano così iniziato a confrontarsi su come si potesse vivere dentro una casa in maniera aderente all’insegnamento di Gesù, cercando risposte nelle Scritture. Intanto i lavori a Coriano procedevano e il 27 maggio 1973 venne inaugurato l’edificio, di cui si erano ultimati i lavori: era nata Casa Betania. Nel discorso inaugurale don Oreste sottolineava che il cuore della casa sarebbe stata la cappella e che l’adorazione quotidiana sarebbe stata la forza che avrebbe sostenuto questa iniziativa. Il 3 luglio don Oreste e Ida accoglievano Guido, un ragazzo down di 22 anni: iniziava qui la Casa Famiglia. La mamma di Guido, lasciandolo, disse: “Ora posso morire contenta”. Più tardi in quella giornata arrivò anche Mario, dimesso da un istituto, con problemi psichiatrici. “Quel giorno iniziammo” – racconta don Oreste: “e c’era solo Ida, non c’erano letti, non c’era niente, si doveva ancora dipingere e i soldi non c’erano. C’erano solo due ragazzine, Lucia e Ave, che curiosavano ad una ventina di metri di distanza”.

“La mia vocazione – scriveva Ida in quegli anni – è prima di tutto mettermi alla pari di chi è più povero, lasciando i privilegi della mia situazione di provenienza: dal poter fare una vita comoda in una bella casa, alla possibilità di trovare facilmente lavoro, avere degli amici e poterli scegliere, ricevere amore e protezione nella mia famiglia, essere considerata dalla gente in proporzione alla potenza economica, poter disporre del mio tempo, dei miei soldi. ecc”. (…) “Libertà dalle cose, da se stessi e nell’amore: smettere di amare alla «vecchia» maniera, per mettersi ad amare come Cristo, amando per primi, gratuitamente, inutilmente, fuori da ogni condizionamento, senza cercare risposta, risultato o riconoscenza”.

Gli inizi furono duri: mancava tutto. Ida verniciò alcuni letti vecchi e delle sedie malandate. Si affiancarono subito altri volontari, come Andrea Aluigi, che accettò l’invito di vivere per un periodo nella casa. Due giorni dopo l’inizio fu accolto Agostino, in stato di abbandono. Lucia, una ragazza di Coriano venne a vivere nella casa. La vita di condivisione con gli ultimi sapeva attirare molto, quanto più grande era la povertà. Anche il fidanzato di Lucia, Mariano, fu molto colpito da ciò che si viveva nella casa e si avvicinò al cammino che si stava percorrendo. Poi fu la volta di Mara, una giovane universitaria, che lasciò la sua famiglia e venne ad abitare in casa Betania, scegliendola come propria famiglia. Qualche tempo dopo Ida lasciò Casa Betania ed entrarono come madre e padre di Casa Famiglia Mirella e Flavio. “Nella Casa Betania – scriveva don Oreste – come in tutte le case famiglia, si tocca con mano quanto sia vero che solo la rigenerazione nell’amore fa diventare padre e madre. Con Mirella, ha dato e dà la vita Giovanni; vedendolo nel rapporto con tutti questi “piccoli” si vede quanto anche lui sia parte integrante della famiglia, la prima di tutte le case famiglia. In essa hanno ritrovato la vita tanti giovani che avevano tentato di coprire il vuoto, il disagio con la droga. Allora le case famiglia sono un tassello della nuova civiltà, la civiltà del gratuito, la società del gratuito”.

A Coriano Casa Betania era semplicemente “la casa”. Il rapporto con il paese era uno degli obiettivi principali e si era stabilito un buon rapporto. La gente andava spesso in casa a dare una mano.
I primi tempi. “Quando partii da casa mia mamma piangeva, mia zia e i vicini dicevano che era una disperazione troppo grande per la mamma – ricorda Ida – e per queste cose che dicevano io piansi. Ma ero decisa e partii. I miei mi lasciarono la macchina e a Casa Betania le ragazze mi aiutarono a riverniciare i mobili vecchi. Andrea Gemmani veniva su in bicicletta dal Seminario per pulire la vernice dal pavimento. Le ragazze più che un aiuto materiale mi davano un sostegno. I primi giorni nella casa c’era anche Giovanni Tonelli. I primi ad aiutare furono Alba e Renzo Brigliadori di Santarcangelo che avevano fatto le ferie; c’era anche Mariano Guiducci che ci aiutava dall’esterno: la prima volta venne per curiosità, aveva un atteggiamento quasi da presa in giro. Poi non smise più di venire. Don Oreste faceva avanti e indietro con la 500, io pensavo che sarebbe rimasto nella casa, ma non fu così. I primi giorni dormivo dalle Maestre Pie, nella casa c’erano Alba e Renzo. Si creò un bel gruppo, anche con le famiglie”.
Vita nella Casa. La giornata cominciava con la Messa in parrocchia per chi lavorava nella casa. Si facevano poi i lavori di casa coinvolgendo anche i ragazzi. Quelli che non avevano possibilità di lavorare fuori davano una mano in casa. Agli inizi la vita si esauriva nelle cose di tutti i giorni: i ragazzi erano già molti e la casa era grande. “Una volta a Canazei tutti i ragazzi della casa si riunirono attorno a don Oreste – ricorda ancora Ida – e lo chiamavano tutti insieme. Lui si è reso conto forse in quel momento di quanti fossero”.

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