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di don roberto battaglia

Come superare il "neoclericalismo"? Una riflessione sulle parole di Papa Francesco

In foto: Papa Francesco
Papa Francesco
di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 4 minuti
mar 30 mag 2023 13:03 ~ ultimo agg. 15:17
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«UNA CHIESA INQUIETA IN ASCOLTO DI UN’UMANITÀ FERITA». Il Discorso di Papa Francesco ai referenti del cammino sinodale risuona nella riflessione sul tema di don Roberto Battaglia, parroco di san Girolamo a Rimini che proponiamo alla lettura dei nostri utenti.

Il Papa ha incontrato i referenti diocesani del cammino sinodale italiano assieme ai vescovi, mettendo in evidenza come il neoclericalismo autoreferenziale sia la tentazione più pericolosa per la Chiesa e per lo stesso processo sinodale: «A volte si ha l’impressione che le comunità religiose, le curie, le parrocchie siano ancora un po’ troppo autoreferenziali. E l’autoreferenzialità è un po’ la teologia dello specchio: guardarsi allo specchio […] Sembra che si insinui, un po’ nascostamente, una sorta di “neoclericalismo di difesa” – il clericalismo è una perversione, e il vescovo, il prete clericale è perverso, ma il laico e la laica clericale lo è ancora di più: quando il clericalismo entra nei laici è terribile! –: il neoclericalismo di difesa generato da un atteggiamento timoroso, dalla lamentela per un mondo che “non ci capisce più”, dove “i giovani sono perduti”, dal bisogno di ribadire e far sentire la propria influenza». È una preoccupazione che si può ritrovare in tantissimi suoi interventi, dalla Evangelii gaudium, documento programmatico del pontificato, alla Lettera alla Chiesa tedesca del 2021 circa il «nuovo pelagianesimo» secondo il quale si pensa di risolvere i problemi «con riforme puramente strutturali, organiche o burocratiche».
Dalla «teologia dello specchio» ci mise in guardia già Joseph Ratzinger intervenendo al Meeting di Rimini nel 1990, quando disse che l’attivismo ecclesiocentrico è precisamente «uno specchio che riflette solamente se stesso», riducendosi a «una finestra che, invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo tra l’orizzonte e il mondo, perdendo così il suo senso». Francesco in un suo recente messaggio ha riproposto un passo di questo intervento in cui Ratzinger sottolinea «l’idea ingannevole che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in strutture intra-ecclesiali». In questa direzione si può cogliere quanto sia opportuno e decisivo il costante richiamo del nostro vescovo Nicolò al fatto che «i missionari sono i giovani e gli adulti che vivono nei loro luoghi di lavoro, in famiglia, e nei vari ambienti di vita e che proprio lì, grazie al loro battesimo, sono chiamati ad essere testimoni del Vangelo, sapendo dare ragione della speranza che è in loro».
Ma cosa ci permette realmente di uscire dai nostri recinti? Occorre l’esperienza di uno sguardo capace di abbracciare integralmente la nostra umanità rispetto al quale mettersi in discussione non a partire dal proprio ruolo nella “struttura clericale” ma come uomini e donne leali con le esigenze del proprio cuore, verificando la nostra fede nell’incontro con tutti i fratelli e le sorelle del nostro tempo.
Ciò che siamo chiamati a riscoprire anche attraverso il percorso sinodale non può, infatti, essere riservato ai circoli chiusi formati dai «capi di una parrocchia», poiché chi ha veramente a cuore la
propria umanità può essere attratto solo da un’esperienza che sia per «tutti: giusti, peccatori, sani, malati, tutti, tutti, tutti». Se non è per tutti non è vera per nessuno. Nell’aula Paolo VI il risuonare dell’insistenza del Papa – «tutti, tutti, tutti» – ha innanzitutto espresso un abbraccio commosso alla nostra stessa «umanità ferita, ma, nel contempo, bisognosa di redenzione».
Si tratta di una sfida laica rivolta ad ognuno di noi – preti, operatori pastorali, credenti e non credenti – a riconoscere e seguire uno sguardo umano capace di comprendere fino in fondo questa
nostra «ferita». Non sarà una «Chiesa appesantita dalle strutture, dalla burocrazia, dal formalismo» a poter vivere la storia presente all’altezza di questa sfida ma «una Chiesa “inquieta” nelle
inquietudini del nostro tempo», fatta di uomini e donne disposti a «raccogliere le inquietudini della storia e a lasciarsene interrogare».
Nella visita alle famiglie in occasione della Pasqua come a scuola e in vari rapporti inaspettati di questo tempo, mi sono reso conto dell’urgenza, per la mia stessa vita, di condividere l’inquietudine della domanda di chi si incontra, per poter andare a fondo della mia umanità. Questi incontri “casuali” sono per me determinanti al punto da non poter descrivere l’incremento di una familiarità con Dio se non a partire da ognuno di questi volti, da alcuni ragazzi a scuola che hanno parlato dell’ora di religione come «un luogo in cui poter parlare di noi ed essere ascoltati» a una donna incontrata poco prima della sua morte, per il modo in cui mi ha ospitato, volendo condividere le domande provocate dalla sua malattia, cercando un abbraccio umano che la ospitasse a sua volta senza scartare nulla del dramma dell’esistenza.
Più di una volta altri amici, certamente distanti dai luoghi clericali ma, almeno per un istante, attratti da una diversità umana che li interpella, mi hanno detto di riconoscere nella Chiesa «un luogo dove poter porre domande». Ogni incontro può allora diventare come quello di Gesù con la donna samaritana nel quale innanzitutto Cristo ha sete della sete di lei, del suo bisogno, del suo desiderio a cui neppure cinque mariti potevano rispondere. Il clericalismo autoreferenziale è così superato in un «corpo a corpo», secondo un’efficace espressione dello stesso Francesco, avendo sete della domanda di chiunque si incontra per poter riscoprire continuamente l’origine di quell’umanità che li colpisce e che siamo i primi ad aver bisogno di tornare ad accogliere. Francesco invita a lasciarsi spiazzare «dall’opera che lo Spirito Santo va realizzando» poiché «è Lui il protagonista del processo sinodale, Lui, non noi!». Si tratta di lasciarsi mettere in discussione da un «disordine» che lo Spirito provoca, per sperimentare «un’armonia» ben diversa «dall’ordine che noi potremmo fare da noi stessi», sapendo ascoltare, come il Papa stesso ha detto nel suo ultimo viaggio in Ungheria, «le domande e le sfide senza paura o rigidità», cercando la sete anche nel deserto e accogliendo i «nuovi germogli» nei quali rifiorisce inaspettatamente l’esperienza cristiana.