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l'altro assolto

Cocaina consumata nei bagni del locale, per uno dei gestori arriva la condanna

In foto: il Tribunale di Rimini
il Tribunale di Rimini
di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 2 minuti
gio 15 lug 2021 21:01 ~ ultimo agg. 16 lug 15:45
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Da un esposto presentato nel 2017 da alcuni residenti di Bogno Marina, che lamentavano un baccano assordante provenire da un ristorante della zona (che nel frattempo ha cambiato sede), la polizia Municipale di Rimini aveva scoperto che all’interno del locale, oltre a cenare, alcuni clienti consumavano cocaina. Un’ottantina i passaggi di stupefacente documentati dalla telecamere installate di nascosto nei bagni dagli agenti, con madre e figlia, di 51 e 33 anni, entrambe riminesi, finite a processo con l’accusa di agevolazione all’uso di sostanze stupefacenti, dal momento che erano loro a gestire il ristorante e quindi, per gli inquirenti, non solo non potevano non sapere cosa accadeva all’interno del loro locale, ma sarebbero state anche consapevolmente tolleranti verso tale pratica. Accuse che le due donne hanno fin dal principio respinto con forza e che questa mattina sono cadute per una delle due.

La madre, infatti, difesa dall’avvocato Paolo Righi, è stata assolta con rito abbreviato perché il fatto non costituisce reato, mentre la figlia, assistita dall’avvocato Marco Ditroia, è stata condannata a un anno e sei mesi di reclusione dal giudice Manuel Bianchi, che ha ribaltato le richieste del pubblico ministero. Quest’ultima, che ricorrerà certamente in Appello per dimostrare la sua totale estraneità ai fatti, si occupava di gestire la sala, mentre la madre lavorava in cucina. Nel processo, che vedeva coinvolti vari imputati clienti del locale, alcuni hanno visto il loro reato estinto dopo la messa alla prova, altri invece hanno patteggiato.

Per gli inquirenti, che nel corso dell’indagine non hanno documentato episodi di spaccio, erano due o tre i gruppetti di persone che si ritrovavano nel locale per cenare e poi consumare nel bagno cocaina in compagnia di belle ragazze, alle quali spesso lo stupefacente veniva offerto. Una pratica consolidata, secondo la Procura, che all’epoca dei fatti iscrisse nel registro degli indagati una ventina di persone.