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La giustizia dopo i riformatori

In foto: Il magistrato minorile Romano Ricciotti spiega come funziona la legge NEL 1999 e nel 2000 a Rimini sono stati più i minori stranieri arrestati, rispetto a quelli italiani. Il dato inquietante che arriva dalla Questura fa riflettere sul destino dei giovani immigrati sorpresi a rubare o a spacciare o a compiere altri tipi di reati.
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Tempo di lettura lettura: 3 minuti
lun 18 giu 2001 11:58 ~ ultimo agg. 00:00
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Oggi in Italia la popolazione carceraria minorile è costituita prevaletemente da extracomunitari come nomadi, arabi e albanesi. Viene da chiedersi perché. Abbiamo girato la domanda a Romano Ricciotti, riminese, ex Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minori di Bologna. “I minori immigrati, una volta arrivati in Italia, nascondono o distruggono immediatamente i loro documenti. Questo rende impossibile stabilire la loro reale identità quando commettono dei reati. Per questa ragione, salvo eccezioni, una volta arrestati vengono tenuti in carcere prima della celebrazione del dibattimento, per l’intero periodo concesso dalla legge”.

Detta così sembra quasi un’ingiustizia. “Sembra, ma non lo è. Fatto sta che, mentre i minori italiani accettano il programma di recupero per cui possono abbandonare il carcere quasi subito, i minori stranieri lo rifiutano e di conseguenza, nel loro caso, non si può che ricorrere alla custodia cautelare. E poi con gli stranieri non si può raggiungere l’obiettivo che ci si propone con i minori italiani, e cioè di punire, ma anche di recuperare il ragazzo alla società. Spesso si tratta di giovani poco disposti ad integrarsi nella nostra società e quindi su di loro non si può esercitare alcuna operazione di rieducazione. La giustizia penale minorile italiana ha sempre cercato il recupero del minor e sia con il perdono e la rinuncia a punire, sia con l’esercizio della pena: anche quando viene inflitta una pena, l’obiettivo rimane sempre quello di far capire al ragazzo che ha sbagliato e deve pagare. Anche per questo, per esempio, i minori nomadi slavi affidati ai servizi sociali sono davvero pochissimi e di solito sono quelli che hanno rotto con la loro famiglia, perché ritornare a casa per loro significa riprendere una vita randagia fatta di espedienti di ogni tipo, tra cui anche il furto. Diciamo che sono quelli che dall’esperienza del carcere prima e della comunità poi, meglio hanno capito che si può vivere anche in un altro modo”.

Considerato che la giustizia minorile prevede condanne meno pesanti (e talvolta discutibili per l’opinione pubblica), potrebbe darsi il caso che proprio per questa ragione i minori stranieri vengano sfruttati da organizzazioni criminali per rubare o spacciare? “Certamente sì, e bisogna anche notare l’alto numero dei minori di 14 anni che come tali non sono imputabili. A Rimini gli stranieri denunciati non imputabili perché minori di 14 anni nel 1999 sono stati 14 e nel 2000, 21; mentre gli italiani sono stati 2 nel 2000 e non c’è stata alcuna denuncia a carico di italiani minori di 14 anni nel 1999”.

Il giudice del tribunale per i minori non deve conoscere soltanto il fatto, ma anche la personalità e la maturità del minore con cui cerca di stabilire un dialogo, per spiegargli il significato del processo che sarà celebrato a suo carico e il perché delle decisioni prese. Dunque è un giudice particolare, diverso da quelli che amministrano la giustizia ordinaria? “I giudici minorili, ieri come oggi, si dividono in due gruppi; ci sono quelli che si sentono giudici veri e propri e quelli che si considerano più operatori sociali e talvolta cercano anche di forzare la legge a favore del minore. Ma l’obiettivo che la giustizia min orile si propone quando infligge una pena è di far sì che il minore non compia più reati. Non bisogna dimenticare poi l’importanza dei servizi sociali e dei tecnici (psicologi e assistenti sociali) per individuare tutte le informazioni sulla storia del ragazzo e sulla sua maturità, elemento questo fondamentale per pronunciare una condanna. In qualsiasi momento della custodia, se da una perizia risulta che il ragazzo era incapace di intendere e di volere e che non era maturo a sufficienza, ecco che salta la possibilità di continuare ad applicare la misura cautelare nei suoi confronti”.

Oggi non esistono più i riformatori; sono stati sostituiti dalle comunità dove i giovani che hanno commesso reati vivono insieme a persone che possono trovarsi lì per altre ragioni. Che cosa ne pensa? “Ci sono i pro e i contro; certo è che l’aspetto di deterrenza che aveva il riformatorio giudiziario è venuto meno e poi non bisogna comunque dimenticare che quando c’erano i riformatori la difesa sociale era assicurata meglio. In comunità i ragazzi non sono sottoposti allo stesso controllo che si trovava nei riformatori e possono allontanarsi materialmente quando vogliono, lasciando perdere le loro tracce. Poi magari vengono riacciuffati e il giudice in quel caso può condannarli ad una pena fino ad un massimo di un mese di carcere. Tornati in comunità molti scappano di nuovo. Si capisce bene che così è molto difficile riuscire a realizzare un programma di rieducazione perché lo si interrompe continuamente. Poi è ovvio che ogni comunità ha le sue regole interne e certamente ce ne sono alcune che funzionano molto bene. A Reggio Emilia, per esempio, esiste una comunità dove gli educatori hanno pensato di affidare i nuovi arrivati ai minori che stanno per finire il loro programma di rieducazione e che si mostrano molto affidabili. Così, in molte piccole cose, come pe r esempio andare a scuola o al lavoro o a comprarsi le scarpe, sono affiancati dai minori più responsabili che esercitano anche un’attività di controllo sui loro compagni più piccoli”.

Cristina Casadei