Rimini F.C.: siamo tutti "cani randagi"!


Allora te lo chiedi. Che calcio è questo? L’ultimo decennio sarebbe dovuto essere il punto di ritorno, il punto da dove tornare, ci abbiamo creduto e invece il pallone rotola nel fango come prima. Più di prima. È successo ancora qui, il che conferma che non sia un caso che c’erano ancora una volta le basi, l'humus per essere il terreno di tutti i disastri. Si è detto tanto, si conosce tutto, anche all’interno di questo desolante cono d’ombra che avvolge ogni cosa: partite, classifiche, storie, vite. C’è tuttavia uno squarcio in tutto questo grigiore, qualcosa che arriva per dare dignità a una squadra, a una tifoseria, a una città. Per la gente, per la critica, per il calcio anche. Sono i “Cani randagi” di Filippo D’Alesio.
Randagio derivato di randa, sul bordo, sull’orlo, all’estremità. A margine, muovendosi senza una direzione rettilinea i “Cani randagi” di D’Alesio vagano per il calcio e hanno il potere di mostrare con i loro comportamenti quanto ci sia di equilibrio o disequilibrio in tutto quello che li circonda. È Filippo il protagonista di questa storia, il capobranco di questi cani è lui, ma al tempo stesso sono tanti come un riconoscimento del primo tra pari: tutti uguali e lui più uguale di tutti. Per lui si era pronosticato un futuro rapido: allenatore ad interim, un passaggio veloce prima della consegna all’oblio del pallone o nella migliore delle ipotesi alla perlustrazione preventiva prima di sedersi davvero su una panchina. Sarà stato per l’età ma così non è anche se non vi pare.
Filippo si è scoperto da solo senza sapere se avesse davvero la stoffa, ci credeva ma senza riscontri, con la domanda se fosse la fiducia in se stesso a dargli quella sensazione o se fosse davvero bravo. Succede sempre così e l’unica risposta è la vita: lo vedi in fondo. Se ce la fai, sai perché è successo. I detrattori sono ovviamente scomparsi sostituiti da trepidanti fan che combattono gli uni con gli altri dicendo al pallone di essere stati gli scopritori di Filippo facendo circolare una serie di “io l’avevo detto” da far rabbrividire. I “Cani randagi” lasciano uno spiraglio di luce, chiedono una possibilità, avrebbero bisogno di una carezza, rendono più difficile voltarsi dall’altra parte facendo finta di niente. Non è successo niente per carità, però l’implicito qui è un altro: non ci credeva nessuno. Ma i “Cani randagi” hanno la passione al posto dell’esperienza, la luce negli occhi al posto del pelo sullo stomaco e chi oggi prevede un finale facile da scrivere potrà anche avere ragione ma non ha prospettiva è in deriva dall’essenza del calcio, dalla sua magia. È scollegato dall’orgoglio del vestire una maglia, dalla sensazione piacevole e però potenzialmente devastante di farlo senza pensare a nient’altro.
Solo per vedere quel pallone rotolare e provarci. Nel pallone ogni domenica devi portare a casa un raccolto e sarà sempre più difficile perché i “Cani randagi” sono usciti allo scoperto anche se ancora ultimi, dove resteranno ancora a lungo ma guardati ora in modo diverso. Ultimi però non significa sconfitti. Non per lui, non per loro, non ora. La posizione è relativa: non è una graduatoria, ma una classifica, sottile differenza che spiega l’idea meravigliosa di potercela fare anche quando tutto ti dice che è impossibile. Forza “Cani randagi”, sarà durissima e servirà cento volte di più di oggi per farcela ma chi ama questa maglia, chi ama il calcio, è con voi.
Francesco Pancari