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L'operazione della finanza

Maxi evasione e frode all'Inps, arrestata famiglia di albergatori

In foto: un'auto sequestrata
un'auto sequestrata
di Lamberto Abbati   
Tempo di lettura lettura: 3 minuti
mer 2 ott 2019 08:26 ~ ultimo agg. 3 ott 13:41
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Gestiva 7 alberghi, per lo più a 3 stelle, a Rimini, ma secondo la guardia di finanza aveva escogitato un sofisticato meccanismo di frode che le consentiva di evadere le imposte e le tasse comunali, di non pagare luce, acqua e gas, di non presentare le dichiarazioni dei redditi e dell’Iva e di raggirare persino l’Inps. Una famiglia di albergatori molisani (marito, moglie e tre figli), trapiantati a Rimini da più di 30 anni, è stata arrestata questa mattina dai finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria e del Gruppo di Rimini, che hanno eseguito 11 misure cautelari emesse dal gip del tribunale di Rimini, Benedetta Vitolo. In carcere sono finiti il padre 66enne, M.D., e il figlio, N.D., 33 anni, mentre ai domiciliari ci sono la madre 65enne, A.F. e gli altri due figli, il maggiore, E.D, 37 anni e la sorella, V.D., 28 anni.  Le accuse sono pesantissime e vanno, a vario titolo, dalla bancarotta fraudolenta al riciclaggio e all’autoriciclaggio. Contestata anche l’associazione per delinquere.

Stando all’impianto accusatorio, a capo dell’associazione c’era il padre: era lui a gestire personalmente tutte le attività e le relative disponibilità economiche, anche senza rivestire in alcuni casi alcuna carica o partecipazione. Il collaboratore principale era il figlio 33enne, socio in molte delle società coinvolte negli illeciti e amministratore in altre. Sarebbe stato lui a trasferire le somme ricevute dal padre in diversi conti correnti e a sostituirle con beni di altra natura. Erano loro, insieme, a costituire ogni anno nuove società con le quali gestivano i 7 alberghi a Rimini. Poi, al termine della stagione o con l’avvicinarsi delle scadenze fiscali, gli indagati si “spogliavano” delle quote societarie, dell’amministrazione e della rappresentanza legale delle varie società, cedendole (con l’aiuto di un 34enne albanese residente in Molise, al momento irreperibile) a prestanome extracomunitari (nullatenenti o pregiudicati) spesso irreperibili e trasferendone la sede all’estero, in Albania, in modo da vanificare le pretese erariali e da ostacolare le procedure di fallimento. Prima, infatti, padre e figlio le svuotavano di ogni bene, cedendo in realtà delle “scatole vuote”. Dal 2011 ad oggi avrebbero costituito ad hoc ben 47 società, 12 delle quali del tutto sconosciute al Fisco. In questo modo gli indagati  pagavano solo i dipendenti e i fornitori ai quali erano legati da un rapporto di fiducia, mentre continuavano ad accumulare debiti nei confronti dell’Erario, del Comune e dei grandi fornitori, come nel caso delle utenze. L’ultimo passaggio del “giochino”, consisteva nel ripulire le ingenti somme derivanti dai ripetuti reati fiscali: quei soldi finivano in società pulite (le cosiddette casseforti di famiglia), consentendo loro – sostengono gli inquirenti – di acquistare due alberghi sempre a Rimini. 

Madre e figlia, secondo l’accusa, avrebbero collaborato nell’occultare e nel trasferire da un conto all’altro parte delle somme illecite, mentre il figlio maggiore, D.E, dipendente dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione di Rimini (ora sospeso), sfruttando la sua posizione e quindi l’accesso ai sistemi informatici dell’Agenzia, avrebbe monitorato le situazioni debitorie accumulate dalle società di famiglia, così da poter agire in anticipo e avvertire i famigliari sulle prossime mosse da compiere. Tra i soggetti frodati figura anche l’Inps, che ha attivato il recupero di indebite prestazioni lavorative per circa 2 milioni di euro. Gli ispettori del lavoro, infatti, hanno già annullato 28 rapporti di lavoro a cui erano stati erogati altrettanti sussidi di disoccupazione. 

Al termine delle indagini, coordinate dal sostituto procuratore Paolo Gengarelli, il gip ha disposto nei confronti degli indagati il sequestro di beni immobili (i due alberghi di proprietà della famiglia) e mobili (due Porsche, una Harley Davidson, conti correnti e soldi in contanti, come i 15mila euro scovati all’interno di una scatola di biscotti), per valore complessivo di 14 milioni di euro. “Da domani potrei diventare improvvisamente povero… Non so se sarò libero di stare a casa o se mi schiafferanno in galera…”, raccontava al telefono ad un amico uno degli indagati che aveva intuito di essere stato scoperto.