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Umberto Galimberti: il corpo in occidente

di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 4 minuti
lun 15 dic 2014 16:45
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A conclusione del percorso di Biblioterapia di quest’anno Umberto Galimberti, filosofo, psicanalista di formazione junghiana e docente universitario, che dopo aver compiuto studi di filosofia, antropologia culturale e filosofia, ha tradotto e curato le opere di Karl Jaspers, di cui è stato allievo durante i suoi soggiorni in Germania.

Il suo intervento, del 13 dicembre presso il Teatro Novelli, è stato l’ultimo di una rassegna dedicata al “corpo che noi siamo” che la Biblioterapia ha cercato di esplorare, prima di lui, attraverso le parole del filosofo, del teologo, del filologo, nell’incontro con Carlo Sini, Antonietta Potente, Elena Pulcini, Maurizio Bettini.

 

In Occidente, secondo il pensiero di Galimberti, il corpo è stato di volta in volta organismo da sanare, forza lavoro da impiegare, carne da redimere, inconscio da liberare, supporto di segni da trasmettere, password per la ricognizione della nostra identità. Questo è successo perché nella cultura occidentale è prevalsa una concezione dualistica, che, accanto al corpo, ha collocato l’anima come luogo della verità, fino ad arrivare, nell’età moderna, alla riduzione scientifica del corpo a materia organica. Questa rappresentazione oggi ci conduce a una vita separata dal corpo che noi siamo.

 

Nell’antichità non era così. Omero parlava di “soma” solo in riferimento al cadavere, perché quando l’uomo è vivo non c’è la necessità di fare distinzioni: il corpo è identico all’io e correlato al mondo. Anche la parola Psyché (anima) è riferita solo all’ultimo respiro. Il corpo non è rappresentativo di un moto dell’animo, il corpo è immediatamente espressivo: l’ira di Ulisse è corporea. Non rappresenta, esprime.
E’ Platone a introdurre la nozione di anima: la sua era una necessità legata alla costruzione di un sapere universale. Per fondare un sapere universale non ci si può fidare solo dei sensi corporei. Il corpo ha sensazioni diverse per tutti, si ammala: il sapere a partire da esso non poteva essere oggettivo. Per far esistere la scienza bisognava introdurre la nozione di anima in grado di produrre concetti astratti. La scienza così gradatamente si separa dalla vita.
Da qui in poi il corpo ha una storia di follia o mortificazione: non può essere attivo nelle idee perché porta emozioni che offuscano le idee stesse. Il corpo diventa la tomba dell’anima: più l’anima si libera da esso più si eleva. Da qui il dualismo anima e corpo.

 

Anche la tradizione giudaico cristiana, profondamente corporea (pensiamo alla resurrezione dei corpi), non contemplava la parola anima fino al IV secolo dopo cristo. La parola Nefesh di per sé legata a più significati (riferiti a organi e funzioni vitali o alla forma complessiva dell’essere umano) è stata tradotta in Psichè. In questo modo la cultura dualistica greca legata all’anima entra nella bibbia. E’ stato sant’Agostino a introdurre il concetto di anima a partire dalla sua conoscenza di Platone e riprendendo il dualismo col corpo. Inserendola, però, non nel discorso sulla conoscenza, come Platone, ma sulla salvezza: il corpo si corrompe, l’anima si salva.
Nel ‘600 nasce la scienza moderna con Galileo, Cartesio e Bacone. Se vogliamo conoscere la natura non dobbiamo catturarne le costanti (come facevano i Greci) dobbiamo fare delle ipotesi e verificarle con esperimenti. Da qui traiamo le leggi di natura. Kant parla di rivoluzione copernicana: gli uomini da qui in poi non si rapportano più alla natura come uno “scolaretto che si beve tutto ciò che gli dice il maestro, ma come un giudice di fronte ad un imputato”. Se le leggi di natura derivano dalle ipotesi umane, l’uomo diventa padrone e possessore del mondo. L’uomo fa fare alla natura ciò che i suoi progetti indicano. Per poter operare su di essa bisogna trasformare tutte le qualità in quantità. Tutto il mondo diventa misurabile, anche il corpo umano. Nasce la scienza medica: il corpo è sommatoria di organi, organismo. Se la scienza non avesse fatto questo non sarebbe mai nata, ma non per questo il nostro corpo coincide con l’organismo: la scienza lo riduce da strumento di comunicazione a oggetto guardato. Le persone hanno però cominciato a credere che il corpo sia quello guardato dalla scienza, l’organismo. Una volta che il corpo diventa tale, è un corpo fatto a pezzi, sezionato, morto.

 

Esistono malattie che, però, non hanno manifestazioni organicistiche diverse dalla salute. La catatonia, la schizofrenia. Nasce così una scienza nuova delle malattie senza riscontro organico, che poi sarà appannaggio degli psichiatri: i medici dell’anima. La psichiatria deve diventare qualcosa di oggettivo per esistere scientificamente, e si oggettiva a partire dalla filosofia (nella definizione delle patologie) e dalla religione (nella determinazione della piena vertenza e del consenso delle azioni) ancora una volta portatrici di dualismo. Lo stesso Freud, ispirandosi e dando riscontro clinico al filosofo Schopenhauer, si muove tra corpo e psiche mettendo nel corpo le pulsioni di vita e morte e nella psiche la rappresentazione di queste pulsioni, io e super io.

Avviene tutto nell’interiorità psichica, il mondo che circonda l’individuo torna rilevante nel contributo di Jaspers e della psichiatria fenomenologica del 900 che auspica il passaggio da una disciplina esplicativa ad una comprensiva: comprendere vuol dire catturare il nucleo da cui parte la “follia” per avere chiaro cosa succede nell’individuo. Questo paradigma è valido non solo per i “folli”, ma per tutti gli individui: se non catturo il nucleo della visione del mondo di chiunque abbia davanti non capirò mai fino in fondo cosa vorrà dire. Comprendere vuol dire catturare la visione del mondo dell’altro. Capire la simbolica dell’altro, come esso si manifesta. In questi termini l’anima è un concetto incomprensibile, il rapporto è quello fra corpo e mondo. Non organismo, ma corpo. Il mio corpo ingaggiato dentro un ambiente, il mio corpo che progetta e trova ostacoli o facilitazioni. La psiche è una parola vuota: il mio corpo è il “qui” di ogni “là”, attraverso di lui si racconta il tempo.

 

Nella malattia ci si accorge quanto sia importante la coincidenza io-corpo e la sua correlazione col mondo. Corpo e io non coincidono più quando ci ammaliamo. Quando sto male il mondo esce dalla mia attenzione e il posto del mondo è occupato dal mio corpo: avviene una scissione dell’io dal corpo. Nella malattia il mondo non c’è più, il corpo è guardato e anche il mio io lo guarda. E’ la sensazione del corpo altro da sé, di non identità, che avviene anche in alcune manifestazioni psicopatologiche come la schizofrenia. Quando “io sto bene”, invece, non dico “il mio corpo sta bene”, non sono altro che il mio corpo in correlazione col mondo.

 

Wiliam Zavoli