Carenza di 30mila medici. Ci affidiamo al destino? Una riflessione


In un passato non troppo remoto, la visione del futuro per la professione medica è stata quanto meno ottusa. Sintetizzo la storia. L’accesso alla Facoltà di medicina, fino al 1923, era prerogativa dei “ceti più elevati”, provenienti dal liceo classico. Poi, si aprirono le porte anche a coloro in possesso del Diploma rilasciato dal liceo scientifico, fino al 1969. Infine, l’apertura a tutti i possessori di un Diploma di maturità. Inevitabile la conseguenza, i medici cominciavano ad essere troppi, a “qualcuno”, non piaceva la concorrenza, inoltre, si amplificavano i costi per il mantenimento delle Facoltà di Medicina. Un bel Decreto del 1987, regolamentò la problematica degli accessi. Numerosi i ricorsi, ma divenne legge nel 1999. Peccato che oggi, a distanza di pochi decenni, ci accorgiamo che siamo carenti di circa 25/30.000 medici. Eppure, è facile pronosticare il futuro, anche senza avvalersi dei tarocchi. Per rincarare la dose, aggiungiamo altri due gravi problemi. Il primo: un numero molto consistente di camici bianchi ha lasciato il Paese, optando per l’estero (soprattutto Gran Bretagna, Germania, Francia). Il secondo: un numero molto meno consistente del precedente, comunque significativo, ha lasciato il pubblico servizio passando al privato. Decisioni assolutamente comprensibili, i medici si prestano al Giuramento di Ippocrate, che non credo contempli di operare ove si guadagna meno. Analizzare senza proporre è un vizio nazionale. Azzardo quindi delle idee. Auspico interventi, esattamente contrari a ciò che è stato concluso negli ultimi anni. Valutare un percorso di studio spetta all’università, senza norme restrittive. Rendere appetibile la professione nel settore pubblico, spetta alla politica. Mi spiego meglio. I test d’ingresso ed il numero chiuso sono un inutile ed obsoleto orpello. La scuola, per sua natura, deve preparare e valutare. Fatto salvo il Diploma di maturità per l’accesso, basterebbe applicare un principio basico, incontestabile e razionale: chi merita prosegue, chi è scarso si ferma. Le valutazioni spettano all’Università. Di converso, sul secondo punto gli interventi spettano alla politica: contrattazione adeguata, orari di lavoro, mansioni, sostituzioni, progressioni di carriera. Banale, ma reale. Solo in questo modo la professione pubblica tornerà appetibile rispetto al privato e forse, anche verso altri Paesi. Infine, lancio un’idea che renderebbe molto più interessante la professione dell’infermiere, la cui carenza è impressionante ( 50/70.000) . Premesso che da alcuni anni, per accedere alla professione è necessaria la Laurea in infermieristica, mentre una volta, bastavano corsi professionali frequentabili con scolarizzazione basica. Premesso che la progressione non è stata presumibilmente supportata da idonei adeguamenti economici e da mansioni corrispondenti al nuovo titolo richiesto (permangono, salvo errori, sostituzioni dei livelli inferiori), per non parlare degli orari di lavoro. Tutto questo, ha reso la professione poco appetibile. E’ quindi necessario recuperare, con estrema urgenza, senza perdere altro tempo prezioso.
Ecco l’idea, che valorizzerebbe significativamente la professione, aumenterebbero i medici, senza gravare pesantemente sulle facoltà di medicina. Sostanzialmente, la possibilità per l’infermiere laureato di progredire, fino a diventare medico, dopo qualche esame e soprattutto, dopo una corretta valutazione delle esperienze lavorative, come auspica da molti anni la normativa europea riguardante il Quadro Europeo delle Qualifiche, tramite gli EQF ( European Qualifications Framework) ed i livelli corrispondenti. Un percorso vantaggioso per tutti, ma forse, parlare di
integrare Università e QEQ, tramite EQF e livelli di valutazione, è ancora fantascienza per il nostro Paese.
CARLO ALBERTO PARI
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