Indietro
menu
tra disordine e armonia

Un chiesa libera dagli schemi. Don Battaglia riflette sulle parole del Papa

In foto: Don Roberto Battaglia
Don Roberto Battaglia
di Simona Mulazzani   
Tempo di lettura lettura: 4 minuti
gio 16 apr 2020 10:57
Facebook Whatsapp Telegram Twitter
Print Friendly, PDF & Email
Tempo di lettura 4 min
Facebook Twitter
Print Friendly, PDF & Email

Toccato nel profondo da una recente intervista di Papa Francesco don Roberto Battaglia, parroco di San Girolamo a Rimini e assistente diocesano di Comunione e Liberazione, ci regala una riflessione molto affascinante sul tempo che sta vivendo la Chiesa in questo periodo di emergenza che aiuta a comprendere come il Papa ci indichi una via “libera dagli schemi…senza temere lo squilibrio“. Don Roberto, che di recente ha scritto il libro “Un Cristianesimo senza Cristo?” in cui parla delle antiche ma sempre contemporanee eresie del pelagianesimo e dello gnosticismo, approfondisce un passaggio di Papa Francesco proprio su questo. La Chiesa, dice il Pontefice, è istituzionalizzata dalla Spirito Santo, il quale «provoca disordine con i carismi, ma in quel disordine crea armonia». Don Battaglia legge i segni di questo cammino anche nella chiesa riminese che ha vissuto il fiorire di tanti carismi, dopo il Concilio Vaticano II, e che soprattutto negli ultimi anni ha vissuto la crescita grande senso di stima e di affetto tra le diverse realtà ecclesiali.

Ecco la sua riflessione

 

«Avere cura dell’ora, ma per il domani. Tutto questo con creatività», senza «fuggire» cercando «evasioni alienanti». L’intervista a Papa Francesco, riproposta in lingua italiana da Civiltà Cattolica, ci invita a lasciarci mettere in discussione da quello che sta accadendo nel contesto della pandemia in corso, una situazione tanto drammatica e dolorosa quanto densa di provocazione per la vita di ognuno di noi e per la stessa identità della Chiesa.

Siamo nel dolore per le tante vittime, compresi gli amici e i confratelli defunti, siamo trepidanti per i nostri ammalati e per le persone più fragili come per le devastanti conseguenze economiche, mentre viviamo la Pasqua senza poter celebrare insieme la Santa Messa. Sono, di fatto, sospese tutte le attività pastorali ordinarie e non possiamo ritrovarci neppure per sostenerci reciprocamente in occasione della morte e della sepoltura dei nostri cari.

Gran parte di ciò che ritenevamo indispensabile nell’azione pastorale e determinante per il nostro contributo agli altri, ci viene tolto. Non possiamo evitare di chiederci cosa sia essenziale nell’esperienza cristiana e quale sia il punto di reale consistenza della nostra vita. Non è dunque sufficiente organizzarci per gestire l’emergenza attendendo la fine dell’epidemia. È urgente cogliere «ora» l’appello al cambiamento che risuona in questa circostanza, nella certezza che «le richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche negli stessi avvenimenti della storia» (Amoris laetitia, 31).

Prendere sul serio questa chiamata implica il lasciarsi mettere in discussione senza cedere alla tentazione di cercare facili risposte in ciò che crediamo già di sapere, ma condividendo innanzitutto le domande degli uomini e delle donne del nostro tempo, mettendosi in cammino con ciascuno di loro come mendicanti in mezzo ad altri mendicanti: «Dio ci conduce là dove si trova l’umanità più ferita e dove gli esseri umani continuano a cercare la risposta alla domanda sul senso della vita» (Gaudete et exsultate, 135)

Il cristiano non è chi presume di avere tutte le risposte, piuttosto è colui che sa a Chi mendicare. Vedere il Papa solo in Piazza San Pietro dialogare con Cristo e, pochi giorni dopo, presiedere la liturgia della Veglia pasquale senza concelebranti e senza popolo, in una Basilica di San Pietro praticamente vuota, ha reso evidente l’unica consistenza dell’esperienza cristiana, l’unica forza della Chiesa, in questo tempo apparentemente spogliata di ogni struttura. Il Successore di Pietro era di fronte al Risorto, nella notte di questa Pasqua indimenticabile, come il pescatore di Galilea duemila anni fa sulle rive del lago di Tiberiade, quando, dopo l’esperienza del rinnegamento, che lo aveva reso umile e cosciente della propria debolezza e fragilità, si sentì domandare da Gesù: «Simone, mi ami tu?» (cfr. Gv 21,15).

Tutto è ricondotto all’essenziale.

Questa circostanza, dunque, esige – domanda l’intervistatore – «una Chiesa meno aggrappata alle istituzioni?». Francesco è sorprendentemente netto nella risposta: «Direi piuttosto [meno aggrappata] agli schemi. Infatti la Chiesa è istituzione». E prosegue in modo spiazzante col riferimento alle antiche eresie del pelagianesimo e dello gnosticismo, tratto originale e fondamentale del suo Magistero. «Esiste la tentazione di sognare una Chiesa deistituzionalizzata, -per esempio una Chiesa gnostica, senza istituzioni, o soggetta a istituzioni fisse, per proteggersi, ed è una Chiesa pelagiana. A rendere la Chiesa istituzione è lo Spirito Santo. Che non è gnostico né pelagiano. È lui a istituzionalizzare la Chiesa». Col richiamo allo gnosticismo il Papa individua la riduzione del cristianesimo ad una «grande idea», ovvero, nell’accezione spiritualistica, ad una mera ispirazione interiore o, nella prospettiva di certe tendenze tradizionaliste, ad un rigorismo dottrinale. Col riferimento al pelagianesimo Francesco indica la riduzione dell’annuncio cristiano ad una «decisione etica», che a livello pastorale si coniuga da una parte con l’esasperata fiducia «nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte» (Discorso alla Chiesa italiana, Firenze 10 novembre 2015), e dall’altra con forme di moralismo intransigente o rigido devozionalismo.

«Chiesa istituzionalizzata – precisa il Papa – vuol dire Chiesa istituzionalizzata dallo Spirito Santo». Essa fiorisce dall’azione imprevedibile dello stesso Spirito Santo, il quale «provoca disordine con i carismi, ma in quel disordine crea armonia», mentre «deistituzionalizza quello che non serve più e istituzionalizza il futuro della Chiesa», come documenta il libro degli Atti degli Apostoli.

In questa prospettiva non si deve aver «paura dello squilibrio» (Lettera alla Chiesa tedesca, 29 giugno 2019), imparando a vivere «una tensione tra disordine e armonia: è questa la Chiesa che deve uscire dalla crisi».

Tutto ciò richiede una semplicità nel cogliere ciò che lo Spirito sta operando, potando quello che è superfluo e generando la perenne novità del cristianesimo.

La storia della Diocesi di Rimini è segnata, negli anni del Concilio Vaticano II e nei successivi, dal fiorire di carismi che hanno generato nuovi movimenti e comunità, non senza «tensione tra disordine e armonia». Negli ultimi anni sono accaduti, a vari livelli, legami e trame di rapporti in cui ci si è sorpresi in uno sguardo denso di stima e di affezione tra amici di diverse realtà ecclesiali, non come esito di un progetto o di una strategia, ma per fatti e incontri imprevisti.

È evidente come la Chiesa non sia opera nostra ma di un Altro, che la realizza nella nostra carne attraverso il nostro “Sì” a Lui, nel quale ci scopriamo parte dello stesso Corpo.

C’è qualcosa di più reale?

Per questo avverto tutta l’urgenza di seguire il Papa in questa disponibilità a far saltare gli schemi, senza inseguire un’idea o un progetto precostituito, ma riconoscendo, in questa circostanza drammatica, ciò di cui ho veramente bisogno per vivere, e condividendo questo stesso bisogno con tutti gli uomini e le donne che incontriamo, dentro e fuori la Chiesa.