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Il cuore grande di Rimini

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Tempo di lettura lettura: 5 minuti
dom 17 mar 2013 14:28 ~ ultimo agg. 00:00
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È Marilena Pesaresi, missionaria e medico riminese, da 40 anni a Mutoko, ad avviare questa esperienza verso la metà degli anni ’80. Viene da subito aiutata dal fratello Antonio, cardiologo dell’ospedale di Rimini, che prima da solo, poi con altri colleghi, torna più volte all’anno in Zimbabwe per selezionare i casi più gravi. Il progetto poco alla volta cresce fino a coinvolgere una pluralità di soggetti. La Regione e l’Azienda sanitaria di Rimini si fanno carico delle spese dell’intervento e concedono permessi retribuiti ai propri sanitari per svolgere periodi di volontariato in Africa. La Fondazione “Aiutare i Bambini” di Milano sostiene le spese del viaggio. La Caritas si occupa delle procedure burocratiche legate a visti e permessi e cerca ospitalità per i bambini e le loro mamme, per tutto il periodo della degenza, presso famiglie riminesi.

La catena della solidarietà
Sara da 11 stagioni si occupa dell’Operazione Cuore all’interno della Caritas. Ha una scatola piena di fotografie e un mucchio di storie da narrare. Si commuove e sorride quando racconta delle piccole e grandi difficoltà che incontrano i piccoli al loro arrivo nel nostro paese. “Non conoscono una parola di italiano e ci si comprende solo con il dialogo dell’amore. Alcuni non hanno mai visto l’acqua corrente e anche il frigorifero pieno per loro è sempre fonte di stupore”. Tra esami preventivi, ricovero in ospedale e convalescenza, la permanenza in Italia può durare dai quattro mesi a un anno e Sara è sempre alla ricerca di famiglie disponibili ad accogliere i piccoli per questo, non breve, arco di tempo. Nonostante le difficoltà iniziali, dovute soprattutto al problema della lingua, sono ben 46 le famiglie riminesi che in questi anni hanno aperto le porte di casa ai piccoli ospiti africani. E molte di loro sono rimaste in contatto con questi bambini anche dopo il loro rientro in Zimbabwe e continuano ad aiutarli economicamente.

Con Sara, collaborano all’Operazione Cuore altri sette volontari impegnati nei più svariati compiti: assistere i piccoli in ospedale, accompagnarli alle visite di controllo, parlare con medici e infermieri, ecc. “È un volontariato che richiede grande impegno”, racconta Sara. “Spesso le visite ci vengono comunicate da un giorno all’altro e bisogna essere sempre disponibili. In ospedale ormai mi conoscono tutti, è un po’ come fosse casa mia…”.

Uniti nell’amore. Luciano e Lucia, i veterani del “Cuore”
Luciano e Lucia Racis sono sposati da 36 anni e hanno quattro figli. Una famiglia veterana dell’Operazione Cuore.
“Abbiamo iniziato nel 2006 aprendo le porte di casa a 5 persone: 3 bambini e 2 mamme. Il più piccolo aveva un anno, il più grande 6, si chiamava Trust”. Un bambino sfortunato che in seguito ad una ischemia ha perso un piede e che ancora oggi ha bisogno di cure che nel suo paese non potrebbe permettersi. “Così, poco alla volta – raccontano – Trust è entrato a far parte della nostra famiglia, ne abbiamo chiesto l’affidamento e l’abbiano iscritto a scuola (che non aveva mai frequentato). Piano piano è riuscito a camminare in autonomia, ha imparato ad andare sui roller ed anche in bicicletta. Nel frattempo abbiamo fatto domanda di adozione ed ora, da agosto è cittadino italiano”.
Che bilancio fate di questa vostra esperienza?
“In questi anni sono passati da casa nostra una decina di bambini con e senza mamme. Le difficoltà, specie all’inizio, non mancano ma grazie a un buon vocabolario e alla gestualità di noi romagnoli ci si riesce presto a capire. E poi scalda il cuore vedere il loro volto illuminarsi scoprendo cose per noi abituali: giocare con la neve, andare al mare, potersi lavare aprendo il rubinetto senza bisogno di attingere l’acqua da un pozzo”.
Inevitabile affezionarsi a queste creature. Ma prima o poi bisogna salutarsi…
“Quando arriva il momento della partenza, ci si sente sopraffatti da una marea di sentimenti. Da una parte si vorrebbe trattenere ancora questi bambini per garantire loro una buona convalescenza, dall’altra si comprende che è giusto perché là, nel loro paese, c’è una famiglia che li aspetta”.
Per voi Operazione Cuore non è solo accoglienza…
“Da sette anni organizziamo raccolte fondi per l’acquisto di alimenti e farmaci da inviare in quelle terre martoriate dalla fame, dalla siccità e soprattutto dalla dittatura. Proprio in questi giorni, grazie anche al sostegno di un gruppo di amici e del pastificio Ghigi di Morciano, sono partiti per lo Zimbabawe 130 quintali di pasta, medicinali, indumenti, attrezzature ospedaliere”.

Il dott. Antonio Pesaresi – per tutti Tonino – è un volto noto di Operazione Cuore. Fratello della dott.ssa Marilena Pesaresi, collabora da sempre al progetto. Chi meglio di lui ci può spiegare cosa c’è dietro questa grande macchina della solidarietà?

Come si è sviluppato nel tempo il progetto Operazione Cuore?
“Quando siamo partiti nell’84 la Caritas e la PGXXIII ci aiutavano nell’organizzazione, mentre l’associazione milanese «Aiuto ai bambini» del dott. Modena si occupava delle spese di viaggio. È stata fondamentale anche la cooperazione con i medici obiettori sia di Trieste (che operavano i bambini cardiopatici) sia di Roma che operavano quelli cardiopatici congeniti. Solo a partire dal 2002 la regione Emilia Romagna ha steso un programma per includere i bambini cardiopatici di alcuni paesi sottosviluppati nel progetto Operazione Cuore”.

Mi sta dicendo che esistono più forme di cardiopatia?
“La cardiopatia di questi bambini può essere valvolare perché dovuta a una malattia reumatica oppure congenita perché c’è un’alterazione tra una parte e l’altra del cuore dalla nascita. La cardiopatia valvolare è del tutto scomparsa nei paesi occidentali grazie alle vaccinazioni neonatali. Durante l’operazione dei cardiopatici valvolari avviene la ricostruzione della valvola”.

In Zimbabwe c’è una concentrazione più alta di cardiopatici?
“Si è visto che il 20% dei bambini cardiopatici erano in piccola parte di Zambia e in maggior parte di Zimbabwe. Come si può intuire non è un caso perché dall’ospedale di Marilena vengono segnalati prontamente i casi. In questo momento sono già stati segnalati 60 pazienti, ma riusciamo a operarne dai 16 ai 20 all’anno. In realtà stiamo valutando anche la prospettiva di fare una struttura nel Sudan con Emergency e siamo in contatto anche con la cardiologia pediatrica di Genova per aumentare il numero di operazioni possibili”.

Qual è il costo sanitario dell’operazione e chi la finanzia?
“L’operazione ha un costo di 20.000 euro, indipendentemente dai giorni di ricovero. Il 30% del totale di un caso viene pagato dall’Ausl di Rimini, mentre il 70% dalla regione Emilia Romagna. Il problema è che ci sono diversi passaggi burocratici da fare per cui l’Ausl di Rimini chiede alla Regione di prendere in carico dei casi, ma poi non è sempre possibile operare perché può capitare che: la religione non permetta trasfusioni di sangue, o il bambino non abbia un adulto che lo accompagni, o non sia possibile trovare una famiglia che li ospiterebbe. Una procedura che va a buon fine dura circa 2 mesi. Ad aprile sono previsti altri due arrivi certi e due sono in sospeso perché al momento non ci sono famiglie disponibili”.

I medici che da Rimini vanno in Zimbabwe hanno dei permessi speciali?
“L’Ausl rilascia il permesso ai medici di andare in Zimbabwe per un totale di 30 giorni in un anno. Questa è stata una conquista importante. Io, ai miei tempi, dovevo usare le ferie”.

Con quale frequenza un medico deve andare in Zimbabwe per seguire i pazienti?
“Da 5 anni a questa parte tre medici offrono una presenza costante con controlli ogni 8 mesi durante la terapia anticoagulante. I controlli sono ormai agevolati telefonicamente perché nonostante la gente in Zimbabwe viva nelle capanne tutti hanno il cellulare. Per seguire la terapia devono recarsi in un centro ospedaliero che non è solo quello di Mutoko. C’è un’infermiera che fa da riferimento e da là ci inoltra tutti i messaggi che riceve”.

Quanto possono vivere questi bambini operati al cuore?
“In media un bambino operato può sopravvivere 30 anni. È chiaro che deve fare la terapia anticoagulante per tutta la vita. Ad oggi sono seguiti a distanza circa 180 pazienti”.

InformaCaritas