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Una lettera per riflettere sul Natale e la condizione dei malati di Aids

In foto: Stefano Goffi, dell'Associazione Papa Giovanni XXIII, di Rimini, scrive un lettera indirizzata a Gesù Bambino per riflettere sul Natale e sulla condizione dei malati di Aids. Questa la lettera di Stefano Goffi:
Stefano Goffi, dell'Associazione Papa Giovanni XXIII, di Rimini, scrive un lettera indirizzata a Gesù Bambino per riflettere sul Natale e sulla condizione dei malati di Aids. Questa la lettera di Stefano Goffi:
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lun 24 dic 2001 18:49 ~ ultimo agg. 00:00
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23 Dicembre 2001.

Caro Gesù Bambino anche quest’anno sta arrivando il Natale: anche quest’anno sto arrivando vivo al Natale! E in questo ultimo scorcio di Avvento, cioè di Attesa, devo confidarti che spesso la mia attesa è quella di un vaccino, di una cura per l’AIDS. E non solo: anche una cura per l’Epatite: si perchè (giusto per passare un sereno Natale e per darmi un “altro” bel regalo) dall’ospedale mi hanno comunicato che su di me la cura non ha effetto, e questo, caro Bambino, come ben saprai vuol dire che dovrò morire per Epatite. So caro Gesù Bambino che non è questa l’Attesa: l’Attesa è di Te, della Tua parola, della Tua venuta.
Ed è proprio per questo che delle volte mi fai prendere coscienza che nonostante tutto sono fortunato perchè ho la fortuna di stare qui a parlare con te e se ti parlo vuol dire che sono ancora vivo. Nella mia disperazione mi aiuti a capire che la vita è un dono, un regalo che tu ogni giorno ci fai: non è una cosa dovuta, non è nostra, non è solo frutto di un attimo d’amore, è solo un tuo dono, un bel dono.
Eppure mi diventa difficile oggi sentire questo: sono qui che ti parlo e la febbre come sempre mi tiene compagnia, penso al fegato che si sta deteriorando, e non posso gioire di quelle 35 pastiglie che anche oggi ingoierò perchè se tentano di farmi sopravvivere all’AIDS, mi uccidono rovinandomi il fegato. Mi viene difficile pensare alla gioia della vita, quando oggi fatico persino ad alzarmi dalla sedia. E allora che cos’è questa attesa? Per chi è? E allora in un momento di lucidità, o forse d’incoscienza, capisco che quest’attesa è pensata anche per me, e forse il vaccino per la mia “Sofferenza” non è solo una medicina, ma qualcosa che dia un senso alla mia vita e alla mia malattia: l’Attesa è per ognuno di noi.
Qualcuno ci attende, ha bisogno di noi: quel malato che non può muoversi in un letto d’ospedale; quel marocchino al semaforo attende una mia parola, non solo le monetine; il vicino di casa tanto scorbutico, facendo così magari mi sta chiedendo un pò di compagnia. Però ripensandoci: chi attende me? chi attende un malato di AIDS? Se il marocchino sapesse che ho l’AIDS prenderebbe lo stesso le monete che ho toccato con le mie mani? Il vicino di casa accetterebbe un invito a casa mia o avrebbe terrore della mia tosse e delle tazze da tè dove io ho bevuto? Chi attende un malato di AIDS? Lo so caro Bambino che anche tu sei nato in una misera stalla, vicino ad un asino ed un bue, ghettizzato e rifiutato, ma sappi che anch’io con le 400.000 lire che lo stato mi da al mese per “vivere” non mi posso permettere nemmeno una stalla, e il bue e l’asinello stanno meglio di me, hanno più privilegi e possibilità. E lei caro Presidente del Consiglio aveva detto di voler stare vicino ai più bisognosi: ha forse smarrito il mio indirizzo? Le ho appena scritto un mese fa ma ancora non ho ricevuto nessuna risposta.
Mi dica cosa devo fare: sono invalido per l’HIV e invalido per l’HCV e non posso percepire la pensione perchè negli ultimi tre anni non ho versato i contributi: ma come potevo farlo se sono stato lì lì per morire e non avevo le forze per lavorare? Forse tu caro Silvio stai facendo con noi come con la tua squadra: non dai un salario al tuo allenatore ma lo paghi in base alla rendita, se produce paghi se non produce non paghi: ma come posso produrre io che ho la febbre 3-4 giorni la settimana? Io, caro Silvio, aspetto una tua risposta. Anche tu che ascolti, che ti senti a posto, che ti senti nel giusto: avresti il coraggio di invitarmi a quei bei pranzi natalizi dove spesso tutto è perfetto ma falso, dove tutto è solo un apparire, o avresti anche tu paura come quella scuola dove mi hanno rifiutato perchè avevano paura che dei pallini della mia saliva andassero a contatto con gli alunni delle prime file? Chissà se ti vergognerai e cosa penserai davanti ai tuoi invitati importanti quando il mio orologio continuerà a suonare per ricordarmi di prendere pastiglie e gocce che in quel momento prenderanno il posto del contorno: ti vergognerai di me? Come ti toglierai dall’impaccio quando i tuoi invitati vedranno le mie braccia rovinate dagl’aghi delle flebo?
Quando vedranno il mio viso scarno, segno di malattia? Mi inviteresti pensando che potrei vomitare? E nei momenti di relax dopo il pranzo mi darai tuo figlio da tenere in braccio o avrai paura di un impossibile contagio? Saprai parlarmi alla pari o mi considererai un poverino e non vorrai mai contraddirmi e così facendo non mi aiuterai a vivere, ma mi spingerai a sopravvivere? Ma poi mi fermo, caro Bambino, e ti vedo piccolo, avvolto dalla paglia in quella stalla e capisco che non sono solo: Tu hai voluto nascere uomo come noi per provare in te tutte le nostre angosce e disperazioni, per dimostrarci che l’uomo con l’aiuto di Dio ce la può fare: ed è per questo che capisco quei buchi nel tuo corpo: sono simili ai buchi della mia tossicodipendenza, hai voluto condividere il mio dolore; capisco anche che tu caro Gesù, oltre che nero, handicappato, afgano, sei anche un malato di AIDS e mi dici: non temere io sarò con te! Ora vedendoti capisco che tu fai ad ognuno di noi dei doni particolari, e se mi hai lasciato la libertà di prendere l’AIDS, è perchè mi ami molto e sai che senza di lei forse non ci proverei a convertirmi.
Ma come faccio a dirti: grazie Gesù perchè ho l’AIDS! Non vorrai mica dire che la mia passione (l’aids) è la mia vocazione? Cioè che per portare la tua parola, che è la missione di ognuno di noi, io ho bisogno della mia vocazione (l’aids)? Guarda che sei un bel tipo, eh! Vedo che nella culla mi stai sorridendo e mi ami. E ora che l’attesa è quasi finita io cosa farò? Io cercherò di amarvi nonostante mi chiamate appestato; cercherò di volervi bene anche se pensate a me solo come un condannato a morte; cercherò di stare con voi nonostante voi mi allontaniate, perchè Lui oggi mi inviterà alla Sua Mensa a spezzare il pane con Lui senza paura di un impossibile contagio. Tuo Stefano.

Stefano, Ass. Papa Giovanni XXIII