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Rimini

Archeologia, non Indiana Jones

In foto: L’IMMAGINARIO popolare fa dell’archeologo un ricercatore di tesori; tesori veri, come pentole colme di monete o come statue d’oro, o comunque cose straordinarie, come intere città sepolte. L’archeologia è una disciplina che accende facilmente la fantasia e suscita entusiasmi.
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L’IMMAGINARIO popolare fa dell’archeologo un ricercatore di tesori; tesori veri, come pentole colme di monete o come statue d’oro, o comunque cose straordinarie, come intere città sepolte. L’archeologia è una disciplina che accende facilmente la fantasia e suscita entusiasmi.
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dom 21 ott 2001 14:28 ~ ultimo agg. 00:00
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Quasi mai viene considerata per quello che è: un faticoso lavoro di ricerca materiale e di paziente analisi di reperti per la maggior parte insignificanti (almeno apparentemente), di minuzioso confronto di forme e di fonti. È una questione di fango, di polvere, di macerie e di cocci, di duro e metodico lavoro in cantiere (al freddo e al caldo) e in studio. Un lavoro tutto sommato ingrato, ma indispensabile per aprire orizzonti nuovi alla nostra conoscenza e dare un senso alla nostra storia.
Pensavo a queste cose sfogliando il bel libro curato da Luisa Mazzeo Saracino per il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna, intitolato Scritti di archeologia di Giuliana Riccioni. È stato edito dalla University Press Bologna qualche mese fa (alla fine del 2000), e contiene alcuni importanti studi che a Rimini forse non hanno avuto la diffusione che meritano, nonostante almeno in parte la riguardino.
Giuliana Riccioni si è formata come archeologa all’università di Bologna con Luciano Laurenzi e Guido Achille Mansuelli, ha approfondito lo studio della ceramica greca a Oxford con John Beazley, è stata professore di ruolo e titolare di cattedra all’Università di Bologna fino a pochi anni fa; ha lavorato (e anzi “imperversato” con la sua irruenza) per molti anni a Rimini, affiancandosi dal 1962 al 1967 all’attività archeologica del non dimenticato Mario Zuffa, e in seguito dirigendo numerosi importanti scavi, soprattutto quelli dell’ex Vescovado (Palazzo Fabbri) e del Mercato coperto.
Per quanto riguarda Rimini qui si occupa però solo di frustoli apparentemente insignificanti (qualche minuscolo frammento di ceramica e di bronzo, qualche selce, un imponente mucchio di cocci nerastri), faticosamente identificati e scavati fra l’acqua e la melma in buchi sempre molto profondi (fino a quattro-cinque metri), durante scavi occasionali e d’emergenza in varie parti di Rimini negli anni Sessanta e Settanta. Ma l’individuazione, l’identificazione e lo studio di questi frustoli hanno permesso alla professoressa Riccioni di darci finalmente qualche indizio certo sulla più antica storia della città, o meglio sugli antefatti della colonizzazione di Ariminum: di offrirci cioè la prova “concreta” che già nell’VIII secolo l’area del futuro centro storico era frequentata da genti villanoviane (di Verucchio, naturalmente); che dal VI accoglieva “una comunità etrusca all’interno di un popolamento indigeno umbro”; e che era già dotata di uno scalo frequentato da commercianti navigatori greci e dell’Italia meridionale, che scambiavano merci con gli Etruschi e con i Galli. Uno scalo potenziato dai Romani, che subito attivarono industrie locali e traffici anche via terra con il Lazio e la Campania, e poi con le città settentrionali.
Non si tratta, una volta tanto, di impressioni o ipotesi e supposizioni, ma di deduzioni tratte dallo studio di materiali che costituiscono prove sicure, perché identificati e datati con certezza: materiali esigui ma concreti, che da anonimi cocci sono divenuti reperti degni della massima considerazione e davvero preziosi per tutto ciò che significano. Una metamorfosi, questa, che solo il lavoro diligente e appassionato dell’archeologo è in grado di compiere; il vero archeologo, naturalmente, come appunto Giuliana Riccioni: un po’ detective e un po’ alchimista, alla ricerca di pietre filosofali che in realtà sono cocci da trasformare in dati preziosi.
Pier Giorgio Pasini