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il congedo

In Basilica il saluto del vescovo Lambiasi alla Diocesi

In foto: @newsrimini
@newsrimini
di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 7 minuti
dom 8 gen 2023 16:51 ~ ultimo agg. 9 gen 14:58
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In una Basilica Cattedrale gremita è cominciata alle 16.30 la celebrazione di congedo del vescovo Francesco Lambiasi dalla Comunità diocesana. Diretta su Icaro TV e Icaroplay.

Insieme a monsignor Lambiasi ci sono 120 sacerdoti e 40 diaconi circa. Un lungo applauso è partito alla fine dell’omelia. Al termine della celebrazione, il ringraziamento da parte dei vicario don Maurizio Fabbri seguito da un altro lungo applauso. Come omaggio (monsignor Lambiasi non ha chiesto regali) un quadro che raccoglie foto dei momenti significativi dei suoi 15 anni alla guida della Diocesi. Poi ha preso la parola ancora monsignor Lambiasi per un saluto finale, tra commozione e ironia. A chi gli chiedeva come è fare il vescovo a Rimini, rispondeva “Qui è facile perché è impossibile”. Oggi risponde “è semplice perché è facile”.

Domenica 22 gennaio ci sarà l’ingresso ufficiale nella diocesi di Rimini del nuovo Vescovo Nicolò Anselmi.


Battezzati, cioè vivi in Cristo
Omelia del vescovo Francesco
per la celebrazione di congedo dalla Comunità diocesana
Rimini, Basilica Cattedrale, 8 gennaio 2023, Battesimo del Signore

Felice. Davvero felice e suggestiva la coincidenza tra la liturgia in corso – la festa del ‘battesimo’ di Gesù – e il clima di commiato che si respira in questa celebrazione, commossa e commovente, con la quale mi congedo da voi per imboccare, poi, con voi stessi il rettilineo finale che tra due domeniche ci porterà ad accogliere, a mani aperte e a braccia spalancate, mons. Nicolò Anselmi, quale nuovo vescovo della nostra amata Diocesi.
1. Mi incanta e mi fa vibrare il brano del battesimo di Gesù, perché mi risulta come una miniatura che contiene tutto il vangelo secondo Matteo. E diventa come una fessura, che ci permette di lanciare uno sguardo nel mistero più profondo di Dio, di Gesù, del cristiano. Dio qui, in questo frammento evangelico, ci si rivela come lo Spirito-Amore che unisce il Padre e il Figlio di Dio, l’Emmanuele venuto in mezzo a noi per farsi nostro fratello. Qui, inoltre, Gesù ci si rivela come il Messia. La scena del Giordano anticipa il Calvario. Là Gesù si immergerà nella morte, come qui nelle acque. Là si squarcerà il velo del tempio, come qui si strappa la tenda del cielo. Là il Cristo-Messia darà a tutti lo Spirito, di cui qui riceve in dono un effettivo, tangibile ‘anticipo’. La scelta di Gesù è anche quella del cristiano, chiamato a ‘immergersi’ nella morte del Figlio, per ‘ri-emergere’ nella sua risurrezione ed essere, con lui e come lui, figlio dell’unico Padre dei cieli. E la Chiesa ci si propone come la grande famiglia dei figli di Dio, come il popolo dei “fratelli tutti”, in pellegrinaggio alla volta della patria “che solo amore e luce ha per confine” (Dante).
Ecco, ora vorrei condividere con voi per l’ultima volta una semplice – ma, spero, limpida, nutriente – riflessione su cosa significhi per noi essere battezzati. Brevemente e sostanzialmente significa essere vivi in Cristo. E perciò essere Chiesa. Nell’immaginario collettivo la maggior parte della gente, quando pensa alla Chiesa, si immagina un club di persone di alto bordo, della terza età, che indossa ridicoli vestiti, con ampie frange di fronzoli, di pizzi e merletti, e si permette di venirci a dire fino alla noia che cosa dobbiamo o non dobbiamo compiere. No, il cristianesimo non ha a che fare con il lasciar dormire la nonna in santa pace. No, essere battezzati, formare la Chiesa significa essere vivi nella fede, nella carità, nella speranza.
2. Vivi nella fede. Oggi noi viviamo in una società post-cristiana. Un tempo il credere in Dio era un po’ come il credere nell’io, cioè un ritenere ovvio che Dio esista come è ovvio che esista anch’io. Ora, però, noi viviamo in una società consumista, dove esiste il libero super-market religioso. Dove le persone scelgono di professare una fede o di non professarne nessuna, allo stesso modo con cui si sceglie uno shampoo o un dentifricio anziché un altro. Per cui la religione sarebbe una faccenda abbastanza extra-large e onnipresente, e però, insieme, un discorso abbastanza light, leggero e alla fin fine insignificante.

No, la fede non è masticare una lista di proposizioni indigeribili, e ingoiarla a occhi chiusi e tutta in una volta. La fede, prima che un contenuto, è un atteggiamento. Ed è parente stretta della fiducia. Che è consegnarsi liberamente e totalmente a un Dio, il quale ci ama teneramente e tenacemente, come un babbo forte e misericordioso o una mamma dolce e generosa fino allo sfinimento. Quando Gesù ha incontrato Natanaele, non gli ha chiesto: “Credi tu che io sia vero Dio e vero uomo, o che Dio sia uno in tre persone?”. Ma deve avergli detto semplicemente: “Vieni e seguimi”. E se Natanaele non si arrendeva, gli diceva pari pari: “Vieni e vedi”. Credere è fidarsi di Gesù e affidarsi al suo amore.
La fede nel Padre era la forza di Gesù. La fede in Gesù deve essere la nostra forza. Nel discorso dell’ultima cena leggiamo: “Non si turbi il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). Nei momenti più difficili della vita dobbiamo tagliare tutti gli ormeggi e prendere il largo dell’abbandono fiducioso in Gesù, il quale sta in barca con noi, anche se il vento soffia violento, contro di noi. Quando finalmente ci affideremo a Gesù soltanto, e non avremo il salvataggio di qualche nostra scialuppa di riserva, allora vedremo le montagne sciogliersi come neve al mare. Sorelle e fratelli tutti, sapete perché oggi noi siamo tutti troppo agitati e troppo poco sereni? E’ perché ci fidiamo e ci affidiamo troppo poco a Gesù e al suo santo Spirito.
E’ vero: oggi non possiamo più credere per convenzione, ma solo per convinzione. Non più per abitudine, ma solo per passione. Non più per tradizione, ma solo per decisione. Pertanto siamo chiamati a riaccendere la lampada della fede, già attivata al nostro battesimo, e questo ci permetterà di aiutare a credere altri fratelli e sorelle, che, con la fede, sono ormai andati in automatico o sono caduti in letargo. Ma ricordiamo: mille candele spente non ne accendono nessuna, ma due-tre candele accese ne accendono mille e più di mille.
3. Vivi nella carità. Il principio di tutto, di ogni storia, di ogni vocazione, di ogni comunione, di ogni missione è l’Amore. “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Dio che ha amato noi, e ci ha amati per primo” (1Gv 4.10.19). E’ Dio che ha chiamato Abramo, ha scelto Israele, ha preferito Davide ai suoi fratelli. Il motivo di tali scelte esclusive, ma non escludenti – perché l’amore di Dio è un amore elettivo, ma non selettivo! – non si trova mai nella persona prescelta o nel popolo eletto, anzi Israele è il più piccolo tra tutti i popoli (Dt 7,7ss), e Davide è il più piccolo tra i figli di Jesse. “Considerate la vostra chiamata”, esorta Paolo i suoi cristiani di Corinto: Dio preferisce ciò che è stolto, ciò che è debole, ciò che è ignobile, addirittura ciò che è nulla (1Cor1,26ss.). Questa pre-venienza dell’amore di Dio si esprime nella più assoluta gratuità: Dio chiama l’uomo perché lo ama. Però non ama l’uomo perché è amabile, ma lo rende amabile perché lo ama.
Da qui viene un’altra legge che regola la risposta alla chiamata all’amore. E’ la legge della verticalità. Tante volte si mette in guardia dal pericolo dell’orizzontalismo: il cristianesimo – si dice – non si può ridurre al comandamento dell’amore del prossimo, ed è giusto: prima viene il comandamento dell’amore per Dio. Ma prima ancora del primo comandamento viene l’evento originario: Dio ci ha amati per primo! Dunque la dimensione verticale precede e fonda quella orizzontale, ma si tratta di una verticalità discendente: non siamo stati noi a salire verso Dio, ma è Dio che si è abbassato fino a noi. La conseguenza che si deve trarre da questa gratuita pre-venienza dell’amore di Dio per noi è la carità fraterna: “Se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4,11). Gesù lo aveva già insegnato all’ultima cena: “Se io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri”. E poco dopo: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,14.34).
4. Vivi nella speranza. Se accogliamo Gesù come il cento e il baricentro della nostra vita, se se non riduciamo Gesù a un grande personaggio del passato, ma aderiamo a lui come una persona vivente e operante ieri e oggi, oggi e sempre, allora la speranza invaderà il nostro cuore e sarà la stella polare per il nostro cammino. Allora non ci daremo alla bella vita, ma potremo vivere una vita bella. Davvero bella perché sperimenteremo che non c’è una vita più umana di una vita autenticamente e pienamente cristiana.
Dunque sperare si deve. Si deve perché si può. E si può non perché le nostre cose “vanno bene”, ma perché Dio Padre infinitamente buono non si è mai stancato e mai si stancherà di volerci bene. In effetti “noi non abbiamo ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura” (Rm 8,15). E se dovessimo sentire la paura, avremo il dono e la forza per non acconsentire ad alcuna paura.
Quando siamo nella prova più dura e più buia, ricordiamoci che Gesù ci ha lasciato qualcosa da fare in sua memoria. La notte della sua passione stava per incombere il momento più drammatico di tutta la storia dell’umanità. Uno dei suoi amici lo aveva venduto. Il suo amato Pietro stava per rinnegarlo. La maggior parte degli altri se la sarebbe data a gambe. Eppure quando tutto sembrava perduto, quando non era più immaginabile alcun futuro, lui ha compiuto un gesto folle, incredibile. Mentre stava cenando con i suoi amici, ha preso il pane e l’ha dato loro dicendo: “Questo è il mio corpo, dato per voi”. Quando l’unico futuro più sicuro sembrava essere ormai solo la croce, lui ha compiuto il gesto più scioccante della sua storia. Questo è il fondamento della nostra speranza. Ogni volta che ci raduniamo come comunità per celebrare l’eucaristia, noi non stiamo facendo un picnic tra amici, ma siamo resi presenti a quel momento tetro e tenebroso di un passato che non è più… ‘passato’. E riceviamo un inaspettato dono per il futuro. Fino alla morte, che non sarà la fine della vita, ma l’inizio di una vita senza più fine.
Care Sorelle e Fratelli tutti, permettetemi di congedarmi da voi con una domanda e una preghiera. Non vi sembra che se abbiamo troppo poca gioia, è perché abbiamo troppo poca fede, troppo poca speranza, troppo poca carità? Ma auguriamoci a vicenda, e preghiamo, che anche la grazia dell’ormai imminente venuta del carissimo fratello e padre, il vescovo Nicolò, possa costituire uno stimolo provvidenziale per avanzare sulla strada della nostra conversione. Per questo mi affido alla vostra comunione e a voi e al mio successore assicuro la mia povera preghiera.
Vi saluto con tutto il bene che il Signore mi dona per voi. E vi benedico tutti e ciascuno. Grazie, grazie di cuore!
+ Francesco Lambiasi
Amministratore Apostolico