Indietro
menu
Il consiglio comunale

Cittadinanza onoraria. Il Vescovo: "Rimini tin bòta"

In foto: foto PETRANGELI
foto PETRANGELI
di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 7 minuti
gio 19 mag 2022 19:38 ~ ultimo agg. 21 mag 10:53
Facebook Whatsapp Telegram Twitter
Print Friendly, PDF & Email
Tempo di lettura 7 min
Facebook Twitter
Print Friendly, PDF & Email

Si è aperto con un minuto di silenzio per il femminicidio avvenuto nel pomeriggio in via Dario Campana, il consiglio comunale che in serata ha conferito la cittadinanza riminese onoraria al Vescovo monsignor Francesco Lambiasi, dal 2007 alla guida della Diocesi. La seduta si è svolta al Teatro Galli. I primi a prendere la parola sono stati la presidente del consiglio Giulia Corazzi e il sindaco Jamil Sadegholvaad, poi l’orazione corale letta dal direttore di Icaro Tv Simona Mulazzani.

Il Vescovo nel suo intervento ha condiviso la Rimini che sogna toccando numerosi aspetti di attualità. Parlando di una Rimini città di pace, il Vescovo ha auspicato una politica al servizio della pace che parta dall’educazione evitando nuovi casi come quelli della fiera Hit Show dedicata alle armi e aperta anche ai minori; parlando della città della solidarietà ha citato l’accoglienza ai profughi ucraini (e non solo) e i tanti riminesi che si adoperano nel volontariato; infine parlando di una città di integrale umanità ha definito vergognoso il campo nomadi di via Islanda, citato la piaga della prostituzione e, purtroppo, il femminicidio. “Serve una cultura del rispetto verso le donne a partire dalla scuola”. E ha chiuso poi rivolgendo alla città il primo augurio che gli fu rivolto al suo arrivo in città: “molte persone mi augurarono in dialetto riminese “Tin bòta!”. Mi feci spiegare il significato, che mi risuonò immediato e molto simpatico. Ora, a pieno titolo, lo ricambio a tutta la cittadinanza: “Rimini, tin bòta!”“.

L’intervento del Vescovo

Spettabili Autorità, Carissime Sorelle e Fratelli tutti!
Ci sono parole che nelle ore supreme della vita salgono dal cuore con una intensità vertiginosa. La prima di queste mi fiorisce d’impeto sulle labbra. E l’avrete certamente letta sul mio volto, che, come potete vedere, vi si mostra in flagrante trepidazione. È la parola tra le più tenere e tenaci del nostro vocabolario: grazie. Ringrazio il Signor Sindaco e l’intero Consiglio Comunale per il dono inatteso, ma molto gradito che questa sera mi viene da voi cortesemente partecipato. Cari concittadini Riminesi, da oggi sarò uno di voi. Grazie perché mi fate sentire umilmente fiero di diventare vostro concittadino, un onore che sinceramente mi impegno a corrispondere con sensi di sentita gratitudine e di convinta corresponsabilità.
1. Quando ormai 15 anni fa mi comunicarono che papa Benedetto aveva deciso di mandarmi a Rimini come nuovo pastore di questa bella, cara Diocesi, non potevo sapere cosa aspettarmi di preciso. Ma le prime impressioni, appena arrivato, mi hanno letteralmente e positivamente spiazzato. Rimini: una terra nota per il turismo, che tutti conoscono per le vacanze, ma che ha anche fatto crescere molti semi di santità. Cito rapidamente: il beato Alberto Marvelli, l’ingegnere manovale della carità; il servo di Dio, don Oreste Benzi, il povero, audace profeta del riscatto degli ultimi; la beata Sandra Sabattini, la giovanissima santa della porta accanto. Negli anni ho poi scoperto tanti volti, molti dei quali sono anche qui adesso e mi hanno accompagnato nel mio percorso da Vescovo: sacerdoti, diaconi, persone consacrate, sorelle e fratelli laici, donne e uomini delle istituzioni pubbliche e amministratori locali.
Permettetemi di dirvi che più vi conosco, voi cari Riminesi, più mi risulta difficile abbracciarvi con una descrizione sintetica e calzante. Certo, potrei dire molte cose di voi: che i vostri padri sono stati capaci in poco tempo di ricostruire una Città, distrutta al 90%. Che avete inventato un modello di turismo a misura di famiglie. Che siete franchi e schietti, infiammabili e gioviali, ardenti e arditi. Che vi appassionate alle cose grandi e belle con grinta e accanita risoluzione. Che in questi anni mi avete partecipato un ‘capitale’ di valori umani di alto profilo: una cordiale generosità, un’accoglienza profumata di empatica ospitalità, una preziosa attenzione agli ultimi, un amore contagioso per la bellezza, per l’arte e la cultura.
2. Ma ora mi parrebbe più opportuno che sia io a presentarmi pubblicamente. Ecco, non ho alcuna intenzione di rifilarvi un ‘polpettone’ di date e di tappe del mio curriculum. Penso, invece, che potrebbe essere più opportuno confidarvi, direttamente io stesso, qualcosa delle mie ‘radici’. Vengo da una modesta, ma onesta, bella e cara famiglia cristiana – padre muratore e madre casalinga – terzo e ultimo figlio, dopo due sorelle più grandi. Sono nato in un piccolo paese, Bassiano (LT), una minuscola gemma incastonata nella dorsale appenninica dei monti Lepini, terra di pastori, di contadini e di semplici artigiani.
Nel corso di questi quasi 75 anni ho attraversato le stagioni della mia generazione. Sono cresciuto nel primo dopo guerra, quando in Italia cominciava ad arrivare l’ondata convulsa del boom economico con la pesante appendice del consumismo. Ero liceale nella primavera ecclesiale del Concilio Vaticano II. Sono arrivato alla maggiore età – allora a 21 anni – nell’ormai ‘mitico’ ’68, con lo scossone dirompente della contestazione giovanile. Sono stato ordinato prete per la diocesi di Latina a 24 anni, nel settembre del ‘71. Mi fermo qui con la serie di date e di tappe. Ma siccome ho inteso e intendo la mia vita come un pellegrinaggio, vorrei qui accennare a quel gruzzoletto di ‘perle’ luminose che sono alcune frasi che mi hanno aiutato nel cammino della vita e che custodisco nella mia bisaccia del pellegrino: “Gesù o è tutto o è niente” (Monaco camaldolese); “Ci hai fatti per te; Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non trova quiete in te” (s. Agostino); “Sbagliarci su Dio è il peggio che ci possa capitare, perché poi ci si sbaglia su tutto: sull’uomo, su noi stessi, sulla storia, sul mondo”; “Quando tu hai fatto la carità al povero, mettiti in ginocchio e chiedigli perdono” (Don Oreste Benzi); “Non è vero che l’uomo non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. È vero però che, senza Dio, non può alla fin dei conti che organizzarlo contro l’uomo” (H. de Lubac). “Chi regala la propria libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela” (don Milani). “Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in serio pericolo la propria salvezza eterna” (Vaticano II, AG 43).
3. Vengo così all’ultimo passaggio del mio intervento. Non ho né oro né argento, ma mi porto in cuore un sogno che vorrei regalare a tutti i cari Concittadini riminesi. Ovviamente un sogno ha un grado di approssimazione abbastanza ampio, e quindi vi prego di perdonarmi qualche involontaria lacuna o qualche casuale imprecisione.
Sogno una Rimini, Città di pace. In questo tempo di guerra, ancora di più ci rendiamo conto che la buona politica deve essere al servizio della pace. Ma non si può costruire la pace senza una effettiva ed efficace educazione, a partire dalle generazioni più giovani, ad una “vita buona”, alla nonviolenza, ad una esistenza che punti sulla relazione positiva con l’altro. Pertanto non possiamo non ritornare con il pensiero alla Fiera Hit Show. In essa vengono esposte tutte le tipologie di armi, escluse quelle definite “da guerra”. Ma con una possibilità di accesso consentito a tutti, minori compresi, invece che ai soli operatori di settore. Permettetemi di incoraggiare i responsabili a ricondurre tale delicata questione nel filone della buona politica che non educa all’idea del nemico e non apre a forme di giustizia privata con l’utilizzo delle armi. 
Sogno una Rimini, Città della solidarietà, in cui il valore della solidarietà di molti venga conosciuto e riconosciuto da tutti, perché il virus di una premurosa, gratuita accoglienza si possa diffondere molto di più di qualsiasi pandemia. Sappiamo che tante famiglie riminesi continuano a dare ospitalità a donne e bambini ucraini in fuga dalla guerra, come ce ne sono altre che accolgono persone fuggite da altri Paesi, per poter avere un futuro qui da noi. L’accoglienza è un gesto ammirevole e deve essere aperto a tutti i rifugiati. Del resto l’ideale della solidarietà l’abbiamo concretamente sperimentato durante il terribile flagello della pandemia che a lungo ha afflitto la nostra Città, più che in altre della regione, ma qui da noi ha fatto anche registrare la vicinanza cordiale e concreta – oltre che delle Istituzioni pubbliche e del mondo della Sanità – di tanti giovani, anche immigrati, che si sono fatti vicini e sensibili alle persone più fragili. La Rimini della solidarietà è anche la Rimini del volontariato generoso, gratuito, esperto e competente. Da noi si possono stimare circa 10mila cittadini che con instancabile continuità dedicano tempo agli altri. Si contano anche 72 Cooperative sociali, con 3.600 dipendenti, di cui 900 lavoratori svantaggiati, di tutte le categorie. Sogno che questa realtà si consolidi, si diffonda e continui a crescere in numero e qualità.
Sogno una Rimini, che sia Città di integrale umanità. Una Città in cui nessuno debba essere e sentirsi escluso. Che offra casa e lavoro onesto e dignitoso, propositivo e creativo per tutti. Che rimuova la vergogna di un Campo-nomadi abusivo, pericoloso e luogo di segregazione per tutti quelli che non si vorrebbero avere vicini di casa. Che riconosca lo ius culturae a tutti i bambini che nascono e crescono nel suo territorio. Che cancelli la piaga della violenza contro tutti, in particolare contro le donne: che una donna in cerca di lavoro non debba temere di dire di avere figli, né debba firmare dimissioni in bianco, che verrebbero accettate se dovesse rimanere incinta. Che neppure un caso di femminicidio si debba più verificare in Città. Verso le donne serve una cultura diffusa del rispetto della loro dignità, a partire dalla scuola. Analogo discorso va fatto per le donne vittime dello squallido fenomeno della prostituzione e delle vittime della tratta.
Più in positivo, sogno e mi auguro con voi una Rimini che sappia mettere al centro gli abitanti delle sue periferie esistenziali. Che sappia costruire il proprio futuro con i migranti e i rifugiati. Che sappia dedicare attenzione, tempi e luoghi a piccoli, fin dal grembo materno, e ad anziani, e in particolare ai giovani, perché siano audaci seminatori di cambiamento e appassionati artigiani di autentica fraternità. Sogno una Rimini che sappia valorizzare la sua ricca rete di scuole statali e paritarie, come pure il nostro ISSR. E che non si stanchi di sostenere e di contribuire a potenziare la nostra Università Statale.
Concludo con un piacevole ricordo. Al mio arrivo a Rimini molte persone mi augurarono in dialetto riminese “Tin bòta!”. Mi feci spiegare il significato, che mi risuonò immediato e molto simpatico. Ora, a pieno titolo, lo ricambio a tutta la cittadinanza: “Rimini, tin bòta!”. . – .

La motivazione dell’attribuzione della cittadinanza onoraria:

“Per la Sua opera pastorale, costantemente rivolta al bene comune, grazie alla quale lo spirito di solidarietà e di fratellanza della comunità riminese non si è disperso nel periodo più difficile della storia del Paese dal dopoguerra;

Per avere sempre messo al centro delle attività ecclesiali e sociali il valore della persona ed il legame tra le persone;

Per avere mantenuto ed accresciuto nella comunità cittadina il ruolo della Chiesa riminese che, operando alla luce della fede, è divenuta fattore attivo di sviluppo e crescita del tessuto civile e sociale;

Per aver saputo garantire la costante capacità di adattamento della Chiesa riminese ai rapidi mutamenti della società, seminando disinteressatamente la cultura dell’incontro e dell’impegno diretto nella carne viva della società;

Per avere raccolto le sfide della modernità, mantenendo forte e aperta la presenza della Chiesa come faro di fede, di solidarietà, di attenzione verso i fratelli più deboli e fragili;

Per avere aperto le porte della Chiesa riminese, favorendone il rinnovato impegno nel volontariato e nelle attività di sostegno alle persone e alle famiglie in difficoltà;

Per avere, nella Sua opera quotidiana, fornito un contributo fondamentale alla diffusione della cultura, della conoscenza e della tutela dei beni artistici, quali alimenti per l’anima, indispensabili alla vita dell’individuo e della comunità tutta”.