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L'omelia del vescovo Lambiasi

La celebrazione in memoria di mons. De Nicolò. Il vescovo: la sua vita vera eucarestia

In foto: monsignor Mariano De Nicolò
monsignor Mariano De Nicolò
di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 4 minuti
mer 23 set 2020 19:32 ~ ultimo agg. 16:09
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Si è svolta alle 19 in Basilica Cattedrale, la solenne celebrazione, presieduta dal Vescovo Francesco Lambiasi, in memoria di mons. Mariano De Nicolò, Vescovo emerito della Diocesi di Rimini. Questa data coincide con il giorno dell’ordinazione episcopale e l’ingresso ufficiale in diocesi di mons. Mariano nel 23 settembre 1989.
La celebrazione vuole essere un segno di gratitudine della Chiesa diocesana per la presenza e il servizio di mons. De Nicolò in Diocesi. Sono stati invitati a partecipare i sacerdoti, i diaconi, i religiosi e quanti lo hanno conosciuto.

Mons. Mariano De Nicolò è deceduto all’età di 88 anni, nel giorno del riposo di Cristo nel sepolcro in attesa della sua resurrezione, lo scorso sabato 11 aprile, dopo lunga malattia. In pieno lockdown, le esequie erano state celebrate il 14 aprile in forma strettamente privata e, successivamente, il corpo era stato sepolto nella stessa Basilica.


In memoria del Vescovo Mariano De Nicolò

Omelia nella s. Messa in suo suffragio

Rimini, Basilica Cattedrale, 23 settembre 2020

Una buona lente d’ingrandimento. La sequenza evangelica appena proclamata (Gv 21,15-17) ci consente di mettere a fuoco l’immagine del “grande Pastore delle pecore”, il Signore risorto. E, insieme, attraverso la figura del primo dei Dodici, Simone di Giovanni, ci aiuta a guardare al compianto vescovo Mariano con lo sguardo incrociato di Gesù e di Pietro.

1. È la pagina del conferimento del primato. Vi traspare in filigrana uno sviluppo ternario, con delle sfumature che meritano di essere evidenziate. La prima volta Gesù chiede a Pietro se lo ama più degli altri. E Pietro sembra non rispondere a tono, dicendo semplicemente che a Gesù lui gli vuole bene. Come si vede, Pietro rinuncia ad ogni confronto con i compagni e cambia il verbo della domanda: Gesù gli ha chiesto l’amore e Pietro ribadisce che sì, lui, al Crocifisso-Risorto, gli vuole bene. In seconda battuta Gesù scende di un gradino: rinuncia al comparativo e chiede di nuovo a Pietro se lo ami davvero. Ma Pietro si limita a ribadire che lui al Signore gli vuole proprio bene. La terza volta Gesù scende l’ultimo gradino: si mette al livello di Pietro, si adatta al suo linguaggio, e usa il verbo usato dall’interlocutore: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro non fa come nel cenacolo, non si fa forte della sua generosità e fedeltà per riaffermare il suo inossidabile attaccamento al Maestro. Ora Pietro sembra aver finalmente imparato. Si affida alla conoscenza di Gesù: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. E ad ognuna delle tre risposte di Pietro, Gesù affida a lui il suo gregge: “Pascola le mie pecore; pasci i miei agnelli”.

Commenta s. Agostino: “Nell’interrogare Pietro, Cristo interrogava ciascuno di noi”. Possiamo affermare che Mons. Mariano, nei vari tornanti della sua lunga vita, non si è sottratto al fuoco di fila di quella domanda, inesorabile e decisiva: “Mi ami tu?”. Non ci sfugga un dettaglio minuto, ma tutt’altro che marginale. Pietro, che è stato il primo a professare la sua fede in Gesù, come Cristo, Figlio di Dio, ora viene da lui stesso provocato a professare un amore personale e profondo al suo unico Signore. Questo ci dice che fede e amore non sono isolabili. Anzi sono del tutto inscindibili. La fede è un grande amore. “L’essere umano porta impresso nel suo ‘genoma’ il segno del Dio-Amore” (Papa Benedetto). La fede è la risposta d’amore all’amore di Dio, il quale ci ha amati per primo.

2. Nel motto dello stemma episcopale di Mons. Mariano si legge testualmente: “Victoria Fides”, due parole latine, ispirate alla prima Lettera di Giovanni: “Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede” (1Gv 5,4). È un grido di trionfo! Certo, un trionfo evangelicamente sorprendente, conquistato con il sangue della croce, non con il sangue della spada. Fratelli, Sorelle, mi sento di poter dire: se si sfilasse la ‘tessera’ della fede, il ‘mosaico’ della lunga vita di Mons. Mariano ci si scombinerebbe tra le mani, fino a diventare completamente irriconoscibile.

Il vescovo Mariano ha esercitato il suo ministero quando la Chiesa in Italia si trovava ormai da anni nel tunnel buio della secolarizzazione. Ormai si era fatto evidente nella società che non è più possibile, ai nostri giorni, essere cristiani per tradizione, per abitudine o per convenzione sociale. Lo possiamo essere solo per convinzione e per amore.

Quando ci è giunta la notizia della morte di Mons. Mariano, siamo rimasti tutti colpiti dalla felice coincidenza dell’incipit del “santo viaggio” con le prime ore del Sabato santo. Letta in luce di fede e inquadrata con lo ‘specchietto retrovisore’ di quel “giorno solenne” (Gv 19,33), tutta la sua vita mi si affaccia come sospesa tra i travagli del Venerdì santo e le doglie della Domenica di Pasqua. In effetti il silenzio immobile del Sabato santo si trascina dietro messaggi che ci restano incisi nell’intimo. Ci ricorda che non c’è crocifissione che non conosca l’ora della deposizione. Non c’è lacrima che non si sciolga in sorriso. Non c’è peccato che non intercetti una redenzione. Non c’è amarezza che non trascolori in consolazione. Non c’è sepolcro che non trovi una pietra che non si possa rotolare…

Ecco lo spazio della fede-amore: fede come fiducia, fede come fedeltà, fede come familiarità.

Come fiducia. Fede è fidarsi di Dio e affidarsi al suo amore.

Fede come fedeltà. Fede è rispondere con la nostra traballante fedeltà all’incrollabile fedeltà dell’amore appassionato e assoluto di Dio.

Fede come familiarità. Fede è vivere da “concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,19).

3. Ora, amici miei, datemi la gioia di potervi confidare quasi sottovoce – con il tono sussurrato delle confidenze più intime – “quale” Mariano io ho personalmente incontrato in questi anni del mio ministero in mezzo a voi. E’ vero: l’ho trovato particolarmente provato nella salute via via più malferma. Ma in tutta sincerità posso attestare quanto sia stato per me molto più che un rispettabile monsignore, dal tratto nobile e sensibile. È stato con me un vero signore, cortese e sensibile. Più ancora mi è stato autentico fratello nel ministero episcopale, benevolo e discreto, legato dalla quotidiana, affettuosa preghiera per me e per la nostra cara Diocesi, da lui sempre appassionatamente amata, premurosamente guidata, fedelmente seguita e accompagnata.

Così la sua vita ha continuato ad essere una vera eucaristia: una esistenza umilmente donata al Signore e tutta offerta per il bene nostro e della nostra santa Chiesa. In questo noi, figli di san Gaudenzo, riusciamo ad avvertire quanto la morte di un pastore rappresenti un evento di grazia per tutto il gregge che gli fu affidato per ben diciotto anni.

Pertanto la sua morte si trasfigura in vita: il grano di frumento viene nascosto nella terra, ma non si disperde in essa. Spunta come vita nuova e porta molto frutto. Lo assicura san Paolo: noi apostoli moriamo, perché voi cristiani viviate (vedi 1Cor 4,8-13).

È il messaggio di Pasqua: la morte di Cristo è vita. Anche la morte del pastore è vita per tutta la nostra Chiesa riminese.

La sua anima e le anime di tutti i fedeli defunti per la misericordia di Dio riposino in pace.

+ Francesco Lambiasi

 

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