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Rimini Vita della Chiesa

Si apre il 39° Meeting. Il Messaggio del Papa e l'Omelia del Vescovo

In foto: un incontro Meeting
un incontro Meeting
di Maurizio Ceccarini   
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dom 19 ago 2018 11:48 ~ ultimo agg. 20 ago 11:32
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Come da tradizione, il Santo Padre ha inviato al Meeting per l’Amicizia tra i Popoli un messaggio per la giornata di apertura. Quattro pagine a firma del segretario di stato vaticano cardinale Pietro Parolin che leggono il titolo scelto per l’edizione di quest’anno, “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”, partendo dal ’68 per arrivare a una lettura attuale. Il messaggio è stato letto dalla presidente della Fondazione Meeting Emilia Guarnieri prima della santa Messa delle 11.30 celebrata dal vescovo di Rimini Francesco Lambiasi nell’Auditorium Intesa Sanpaolo A3 della Fiera di Rimini. “Il Pane è per chi ha fame di Cielo” è invece il titolo dell’omelia del vescovo fi Rimini Francesco Lambiasi che ha parlato di “Una vita ‘a 3 b’: bella, buona, beata”.

“Prevale un senso di paura sulla fiducia nel futuro”. Non si può rinunciare però al cambiamento, ricorda il Santo Padre. “Solo Dio, che ci ha fatti con un desiderio infinito, lo può riempire della sua presenza infinita”


Il testo completo del Messaggio dal Vaticano:

A Sua Eccellenza Rev.ma

Mons. FRANCESCO LAMBIASI Vescovo di Rimini

Eccellenza Reverendissima,

anche quest’anno il Santo Padre Francesco desidera far pervenire, attraverso di Lei, un cordiale saluto agli organizzatori, ai volontari e ai partecipanti al XXXIX Meeting per l’amicizia fra i popoli, saluto al quale unisco il mio personale augurio per la buona riuscita dell’evento.

Il titolo del Meeting – «Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice» -, riprende un’espressione di Don Giussani e fa riferimento a quella svolta cruciale avvenuta nella società intorno al Sessantotto, i cui effetti non si sono esauriti a cinquant’anni di distanza, tanto che Papa Francesco afferma che «oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca» (Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa italiana, Firenze, 10 novembre 2015).

La rottura con il passato divenne l’imperativo categorico di una generazione che riponeva le proprie speranze in una rivoluzione delle strutture capace di assicurare maggiore autenticità di vita. Tanti credenti cedettero al fascino di tale prospettiva e fecero della fede un moralismo che, dando per scontata la Grazia, si affidava agli sforzi di realizzazione pratica di un mondo migliore.

Per questo è significativo che, in quel contesto, a un giovane tutto preso dalla ricerca delle “forze che dominano la storia”, Don Giussani disse così: «Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice» (Vita di don Giussani, BUR 2014, p. 412). Con queste parole lo sfidava a verificare quali siano le forze che cambiano la storia, alzando l’asticella con cui misurare il suo tentativo rivoluzionario.

Che ne è stato di tale tentativo? Che cosa è rimasto di quel desiderio di cambiare tutto? Non è questa la sede per un bilancio storico, ma possiamo riscontrare alcuni sintomi che emergono dalla situazione attuale dell’Occidente. Si torna ad erigere muri, invece di costruire ponti. Si tende ad essere chiusi, invece che aperti all’altro diverso da noi. Cresce l’indifferenza, piuttosto che il desiderio di prendere iniziativa per un cambiamento. Prevale un senso di paura sulla fiducia nel futuro. E ci domandiamo se in questo mezzo secolo il mondo sia diventato più abitabile.

Questo interrogativo riguarda anche noi cristiani, che siamo passati attraverso la stagione del ‘68 e che ora siamo chiamati a riflettere, insieme a tanti altri protagonisti, e a domandarci: che cosa abbiamo imparato? Di che cosa possiamo fare tesoro?

Da sempre la tentazione dell’uomo è quella di pensare che la sua intelligenza e le sue capacità siano i principi che governano il mondo; una pretesa che si realizza secondo due modi: «Uno è il fascino dello gnosticismo, […] dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti. L’altro è il neopelagianesimo […] di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 94).

Ma allora, il cristiano che vuole evitare queste due tentazioni deve necessariamente rinunciare al desiderio di cambiamento? No, non si tratta di ritirarsi dal mondo per non rischiare di sbagliare e per conservare alla fede una sorta di purezza incontaminata, perché «una fede autentica […] implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo» (ibid., 183), di muovere la storia, come recita il titolo del Meeting.

In tanti si domanderanno: è possibile? Il cristiano non può rinunciare a sognare che il mondo cambi in meglio. È ragionevole sognarlo, perché alla radice di questa certezza c’è la convinzione profonda che Cristo è l’inizio del mondo nuovo, che Papa Francesco sintetizza con queste parole: «La sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. É una forza senza uguali. […] Nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo» (ibid., 276).

Abbiamo visto all’opera questa “forza di vita” in tante situazioni lungo la storia. Come non ricordare quell’altro cambiamento d’epoca che ha segnato il mondo? Ne ha parlato il Santo Padre all’episcopato europeo lo scorso anno: «Nel tramonto della civiltà antica, mentre le glorie di Roma divenivano quelle rovine che ancora oggi possiamo ammirare in città; mentre nuovi popoli premevano sui confini dell’antico Impero, un giovane fece riecheggiare la voce del Salmista: “Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?”. Nel proporre questo interrogativo nel Prologo della Regola, san Benedetto […] non bada alla condizione sociale, né alla ricchezza, né al potere detenuto. Egli fa appello alla natura comune di ogni essere umano, che, qualunque sia la sua condizione, brama certamente la vita e desidera giorni felici» (Discorso sull’Europa, 28 ottobre 2017).

Chi salverà oggi questo desiderio che abita, seppure confusamente, nel cuore dell’uomo? Solo qualcosa che sia all’altezza della sua brama infinita. Se infatti il desiderio non trova un oggetto adeguato, rimane bloccato e nessuna promessa, nessuna iniziativa potranno smuoverlo. Da questo punto di vista, «è perfettamente concepibile che l’età moderna, cominciata con un così eccezionale e promettente rigoglio di attività umana, termini nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto» (H. Arendt, Vita attiva. La condizione umana, Milano 1994, 239-240).

Nessuno sforzo, nessuna rivoluzione può soddisfare il cuore dell’uomo. Solo Dio, che ci ha fatti con un desiderio infinito, lo può riempire della sua presenza infinita; per questo si è fatto uomo: affinché gli uomini possano incontrare Colui che salva e compie il desiderio di giorni felici, come ricorda un passo del Documento di Aparecida (29 giugno 2007), frutto della V Conferenza dell’episcopato del Continente latino-americano e dei Caraibi. Il Santo Padre, ringraziando per l’esposizione dedicata al grande Santuario mariano di Aparecida, offre tale passo come contributo all’approfondimento del tema del Meeting: «L’avvenimento di Cristo è […] l’inizio di questo soggetto nuovo che nasce nella storia […]: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Deus caritas est, 1). […] La natura stessa del cristianesimo consiste, pertanto, nel riconoscere la presenza di Gesù e seguirlo. Questa fu la bella esperienza di quei primi discepoli che, incontrando Gesù, rimasero affascinati e pieni di stupore dinanzi alla figura straordinaria di chi parlava loro, dinanzi al modo in cui li trattava, dando risposte alla fame e sete di vita dei loro cuori. L’evangelista Giovanni ci ha raccontato, con forza icastica, l’impatto che la persona di Gesù produsse nei primi due discepoli, Giovanni e Andrea, che lo incontrarono. Tutto comincia con la domanda: “Che cercate?” (Gv 1,38). Alla quale fece seguito l’invito a vivere un’esperienza: “Venite e vedrete” (Gv 1,39). Questa narrazione rimarrà nella storia come sintesi unica del metodo cristiano» (Doc. di Aparecida, 243-244).

Il Santo Padre augura che il Meeting di quest’anno sia, per tutti coloro che vi parteciperanno, occasione per approfondire o per accogliere l’invito del Signore Gesù: «Venite e vedrete». E questa la forza che, mentre libera l’uomo dalla schiavitù dei “falsi infiniti”, che promettono felicità senza poterla assicurare, lo rende protagonista nuovo sulla scena del mondo, chiamato a fare della storia il luogo dell’incontro dei figli di Dio col loro Padre e dei fratelli tra loro.

Mentre assicura la sua preghiera perché siate all’altezza di questa sfida entusiasmante, Papa Francesco domanda di pregare per lui e per l’Incontro mondiale delle famiglie che avrà luogo a Dublino il 25 e 26 agosto corrente.

Nell’unire il mio personale augurio, accompagnato dalla preghiera, mi valgo della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio

Card. PIETRO PAROLIN Segretario di Stato

Dal Vaticano, 9 agosto 2018


Il testo completo dell’Omelia del Vescovo Lambiasi:

Il Pane è per chi ha fame di Cielo
Omelia del Vescovo di Rimini per la 20.a Domenica (Anno B) su Gv 6,51-58
Meeting dei popoli – Rimini-Fiera, 19 agosto 2018

Parole verticali, da cime dolomitiche, quelle appena risuonate nella nostra assemblea. Parole vertiginose, mai osate prima di Cristo, mai più udite dopo Cristo. Ma per non smarrirne neppure una sillaba, tentiamo di ridisegnare il preciso contesto storico in cui sono state pronunciate.
Il giorno precedente Gesù si era ritrovato davanti a una folla sterminata, dalle cinque alle settemila persone. Aveva guarito i loro malati. Li aveva incantati con la promessa del regno di Dio sulla terra. Li aveva strabiliati, sfamandoli a sazietà: di pane e di cielo. L’entusiasmo della gente era salito alle stelle. Se quell’uomo aveva il potere di guarirli dalle malattie e di liberarli dalla fame come nessuno aveva mai saputo fare prima di lui… Se, di contro, le promesse dei potenti della terra erano solo frottole e fake-news, allora quell’uomo era davvero il liberatore da sempre atteso. Era l’unico degno di diventare il loro re. Nel suo regno nessuno avrebbe mai più sofferto la fame. Nessuno avrebbe mai più patito guai, affanni e malanni.
Ancora una volta Gesù era stato frainteso. Non era venuto a portare il regno del benessere a buon mercato, il regno del pane guadagnato senza neppure una goccia di sudore, della sanità assicurata a prezzi stracciati. Questo era il regno che Satana gli aveva offerto fin dal principio, nei quaranta giorni di digiuno trascorsi in ritiro nel nudo, rovente deserto della Giudea. Era il delirio di povera gente, che molti avrebbero tentato di costruire a costo di passare su un mare di sangue. Un miraggio abbagliante che immancabilmente si sarebbe rovesciato in un incubo spaventoso, terrificante.
Nella notte passata in preghiera sul monte sopra Betsaida, cuore a cuore con il Padre suo, Gesù aveva deciso di parlare chiaro e tondo a quella gente. A costo di gelare ovazioni incontenibili. A costo di interdire esaltazioni mirabolanti. Nonostante – anzi proprio per – la compassione che provava per quella moltitudine, sfinita e sbandata, come pecore senza pastore. Così all’indomani, nella sinagoga di Cafarnao aveva comunicato messaggi duri e crudi, scatenando un putiferio indescrivibile. Dopo essere stato più volte interrotto, prima con il bisbiglio di brontolii e amari mugugni, poi con provocazioni via via più aspre e ostili, infine facendogli terra bruciata intorno, Gesù aveva concluso il suo discorso senza arretrare di un millimetro, anzi rincarando la dose. “Io sono il pane, quello vivente, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà per sempre. E il pane che io vi darò è il mio stesso corpo, dato e offerto perché il mondo abbia la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane unito a me e io a lui”.
Mangiare la carne: ma si può? Bere il sangue: ma il sangue è la vita. Non è assolutamente lecito berne – neppure una goccia – a nessuno e per nessun motivo al mondo. Un discorso da brivido: urticante, scandaloso. Ora possiamo metterci a mormorare e a discutere anche noi, ma alla fine non c’è che da ripetere smarriti la ‘ragionevole’ obiezione dei Giudei: “Come può costui darci la sua carne da mangiare? E’ impossibile!”.
Eppure è proprio in questo ‘impossibile’ che ci si svela chi è Dio e ci si rivela chi siamo noi. Il Dio di Gesù di Nazaret non è un Dio che pretende e gradisce olocausti, sacrifici e offerte. Non siamo noi a doverci sacrificare per lui. E’ lui che si sacrifica per noi e offre se stesso per comunicarci la sua stessa vita. E’ proprio per rivelare questo Dio che Gesù è venuto e continuamente viene nell’instancabile passione d’amore per l’uomo che è l’eucaristia. E dona se stesso in pegno: prendetemi, mangiatemi, bevetemi. Dio non vuole strapparci il pane di bocca. Anzi è lui che si fa pane per la nostra fame di cielo. E si fa sangue per la nostra bruciante sete di verità, di libertà, di straripante felicità. E ci fa la ‘trasfusione di sangue’ con il sangue del Figlio, perché la sua vita fiorisca nella nostra povera vita. Il nostro Dio è davvero ‘nostro’: un Dio tutto per noi, che non finirà mai di amarci, di servirci, di volerci felici.
Ma il vangelo di oggi si fa anche vera ‘buona notizia’ per noi. Ci dice chi siamo noi, quale infinito destino ci attende, quale luce già da ora riveste e colora la nostra povera vita. Noi siamo insufficienti a noi stessi. Eppure siamo dentro il mistero di Dio. E non solo perché creature sue, perché tali sono anche gatti, cavalli e cagnolini. Ma perché noi siamo voluti e chiamati a entrare nella sua vita. A farne parte: come amici intimi, come parenti stretti. Di più, come figli, teneramente e tenacemente amati. Adesso, già adesso, nella contraddittoria condizione del nostro continuo vagabondare, nei laceranti strappi delle relazioni umane, nella nostra penosa incapacità di un gratuito spenderci e donarci, nella paziente passione per il bene comune, nella gioiosa testimonianza di servizio e di accoglienza per ogni persona di qualsiasi colore, di qualsiasi bandiera, lasciamoci inebriare dal fremito di quelle parole travolgenti: “Chi mangia di me, vivrà per me”.
Vivere per Cristo, con Cristo, in Cristo, vuol dire semplicemente amare. Vuol dire vivere una vita piena, traboccante. Una vita ‘a 3 b’: bella, buona, beata. Vivere di lui, come lui, vuol dire semplicemente vivere.
Vivere una vita autenticamente umana.
Perché veramente sovrumana.
Perché pienamente divina.
+ Francesco Lambiasi


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