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Corridoi umanitari. Dall’Eritrea la prima famiglia arrivata a Rimini

volontari e famiglia accolta

Sono fratello e sorella, di 20 e 26 anni, arrivati in Italia lo scorso 27 giugno da un campo profughi in Eritrea, insieme ai due figli di lei: di 9 anni e 2 anni e mezzo. Sono i primi rifugiati ospitati nel riminese grazie ai corridoi umanitari, un protocollo con il governo italiano portato avanti dalla Cei, dalla Caritas e dalla Comunità Sant’Egidio, per permettere a rifugiati di zone a rischio di arrivare in Italia senza dover rischiare la traversata del Mediterraneo

La famiglia, giunta a Roma lo scorso 27 giugno insieme ad altri 135 eritrei poi smistati in varie diocesi italiane è infine arrivata a Rimini in un appartamento messo a disposizione dai volontari della zona pastorale Flaminia – che comprende le parrocchie di San Giovanni Battista, Cristo Re, Regina Pacis, Colonnella e Mater Misericordiae – che già avevano accolto un gruppo di 5 ragazzi all’interno del progetto Parrocchia accogliente.

“E’ stato grazie al gruppo di volontari che abbiamo potuto aderire a questo progetto – racconta Mario Galasso, direttore della Caritas diocesana di Rimini – una decina di persone che ha deciso di mettersi a disposizione. Infatti, il corridoio umanitario funziona in due fasi. Nella prima, il personale della Caritas si reca nei campi profughi e identifica le persone più fragili, le prime in lista per lasciare il paese e arrivare in Italia. A questo punto sono le Caritas parrocchiali che si attivano e valutano le risorse a disposizione: persone, competenze, appartamenti e varie disponibilità. Solo dopo questo passaggio la Caritas nazionale sceglie i rifugiati da far partire. Ci tengo a precisare che tutto il lavoro della Caritas viene fatto con l’8 per mille”.

Anche in questo caso la procedura è stata questa. I volontari della zona pastorale Flaminia avevano già le risorse – un appartamento e le persone – utilizzate per il progetto Parrocchia accogliente, che negli anni scorsi aveva dato un’abitazione a 5 rifugiati, due ragazzi del Ghana, due della Nigeria e uno del Mali. Poi, finito il progetto – i ragazzi ora lavorano e sono autonomi – hanno messo a disposizione la loro esperienza e l’appartamento per un’altra accoglienza.

“Siamo persone molto diverse l’una dall’altra – racconta Paolo Ceccopieri, uno dei volontari della zona pastorale Flaminia – ognuno di noi mette a disposizione le proprie competenze per portare avanti il progetto. Progetto che non si ferma nel momento in cui i ragazzi raggiungono l’autonomia, perché a quel punto sono nati rapporti personali che continuano con incontri, pranzi e relazioni di amicizia. Abbiamo cominciato in cinque, adesso siamo una decina e all’ultimo incontro erano più di venti i nuovi volontari che volevano collaborare. Inoltre, quando abbiamo cominciato i lavori per sistemare la casa per la nuova famiglia eritrea, hanno partecipato anche i cinque rifugiati che hanno vissuto qui negli ultimi due anni”.

I due fratelli eritrei sono presenti alla conferenza stampa, si guardano attorno e ogni tanto, con voce bassa, raccontano alcuni momenti della loro storia, mentre i due bambini giocano distratti. Lois Frezghi, mediatrice culturale eritrea traduce e racconta cosa hanno passato i due fratelli per arrivare fino a qui.

“La vita nei campi è una vita al limite – dice – chi scappa dall’Eritrea scappa dall’idea di entrare giovanissimo nell’esercito e rimanerci tutta la vita. Da quando A. è scappato la madre è stata più volte minacciata”.

“Per loro è difficili parlare – continua – perché vivono in uno stato continuo di timore che chiunque possa essere una spia e gli faccia pagare la fuga, a loro o ai loro familiari. Ora sono qui, ed hanno tutta l’intenzione di cominciare una vita nuova. Impareranno l’italiano e poi troveranno un lavoro”.

“Il progetto dura un anno – aggiunge Gabrielle Burnazzi, del gruppo dei volontari – ed entro questo tempo dovremmo assicurarci che sappiano l’italiano e abbiano raggiunto una buona autonomia”.

Non ci può essere vera accoglienza se non è la comunità dei cittadini che per prima decide di aprire le proprie porte e rendersi disponibile all’integrazione. La zona pastorale della Flaminia ha dimostrato che è possibile. Non solo, il progetto è andato così bene che i volontari sono aumentati.

“L’integrazione non è sempre facile – chiosa Mario Galasso – ci sono volte in cui ci si arrabbia e ci si scontra con profonde differenze. Ma si può e si deve fare e i risultati sono grandi, immensi. Cose che noi diamo per scontate come mangiare un gelato, far uscire l’acqua dal rubinetto, non lo sono per chi viene da un mondo lontano dal nostro. Noi lanciamo un appello: se altre zone pastorali volessero provare a dare vita ad un progetto di accoglienza attraverso corridoi umanitari, la Caritas sarà al loro fianco, per sostenere tutta la parte burocratica e amministrativa, in modo che i volontari possano vivere un’esperienza ricca e di grande valore”.