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Un sogno che è solo all’inizio

di Silvia Sanchini   
Tempo di lettura lettura: 3 minuti
lun 3 lug 2017 00:31
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È trascorso circa un mese da quando circa 400 delegati della Diocesi di Rimini si sono incontrati per discutere un tema difficile quanto evocativo: La Chiesa che sogniamo.

Un momento di Chiesa che ha cercato di essere innovativo a partire dal metodo scelto (quello della sinodalità, del ‘camminare insieme’) per rispondere al recente invito formulato da Papa Francesco al Convegno ecclesiale di Firenze: “Cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni”.

Nelle riflessioni dei piccoli gruppi di lavoro ma anche nelle relazioni finali delle cinque aree tematiche scelte (famiglia, educazione, inclusione sociale dei poveri, politica e giovani) sono parse evidenti alcune sensibilità condivise e considerate prioritarie per la nostra Diocesi.

 

La prima sfida riguarda i linguaggi: la Chiesa di Papa Francesco è infatti rivoluzionaria anche nel lessico. Parliamo sempre più di poveri, Chiesa in uscita, periferie. Ma a questo cambiamento lessicale, consegue anche un cambiamento nelle prassi? Dobbiamo dotarci degli strumenti giusti per passare dalle grandi idee alle pratiche. Per dare braccia e gambe ai nostri sogni.

Servono sicuramente linguaggi innovativi, al passo con i tempi, senza però snaturarci o avventurarci in ambiti che non ci competono e dove altri soggetti sono sicuramente più capaci.

Ci si lamenta di parrocchie vuote, assenza di giovani o della scarsa partecipazione alla vita ecclesiale, salvo poi continuare a ripetere sempre in automatico le stesse esperienze, senza mettersi in discussione, rimanendo comunità chiuse e a volte respingenti. È emerso allora quanto sia necessario uno sforzo creativo, la capacità di ripensare modelli, luoghi e tempi del nostro agire ecclesiale in virtù di proposte più vicine alle sensibilità e alle esigenze dell’uomo contemporaneo.

Mettersi in ascolto, costruire relazioni autentiche, farsi compagni di strada. È questo il compito a cui le nostre comunità sono chiamate. Soprattutto è il punto di partenza per ricostruire un dialogo con le nuove generazioni, sempre più distanti – almeno apparentemente – dall’esperienza di fede. Ricordandosi che ciò che siamo viene prima di ciò che facciamo.

Lo ha espresso chiaramente Padre Franco Mosconi, monaco camaldolese, nella sua meditazione che ha accompagnato i lavori dei delegati: “Abbiamo bisogno di relazionarci, di ascoltare, di entrare in comunione. Il cristianesimo non è obbedienza a delle leggi ma è relazione con Gesù, è l’amore verso di lui che incarna Dio. Quando uno veramente vive questo rapporto personale con Lui, le altre cose vengono da sole”.

Anche io mi sono lasciata provocare e interrogare dalla ricchezza del confronto di queste due giornate e, in generale, da un anno di lavoro, faticoso e appassionante, che è stato svolto nella nostra Diocesi in preparazione all’assemblea

Credo che un primo dualismo da superare sia l’idea che una chiesa povera sia una chiesa che dimentica il valore dell’impegno culturale e intellettuale. Per offrire risposte alle sfide attuali servono mente e cuore, formazione e impegno concreto. Due ambiti entrambi irrinunciabili.

 

Dobbiamo inoltre, credo, restituire (e non solo a parole) soggettività e pieno protagonismo a quelle categorie considerate tradizionalmente ai margini delle nostre comunità: i giovani, appunto, ma anche le donne, e quelli che chiamiamo poveri e prendono oggi il volto del giovane migrante, della persona con disabilità, del lavoratore precario, del genitore separato, della persona dipendente dal gioco d’azzardo, dell’anziano solo, del bambino o del ragazzo che cresce fuori dalla sua famiglia di origine…

Partendo dal presupposto non più di aiutare, ma di conoscere l’altro instaurando un rapporto di reciprocità e generatività, lasciandosi provocare anche se a volte può essere difficile o doloroso. È uno sforzo di prossimità che non può più permettersi di essere retorico né formale.

La sinodalità è un metodo che richiede di promuovere partecipazione e questo implica ripensare anche le strutture decisionali e i luoghi di potere, fermarsi ad ascoltare per poi discernere, sporcarsi le mani ed essere disponibili anche a fare un passo indietro e a rinunciare a qualcosa in favore dell’altro, costruendo comunità inclusive e non richiudendoci in inutili torri d’avorio.

Serve allora partire dal presupposto di intessere relazioni di qualità, non giudicanti, come si legge in una delle relazioni conclusive: “È necessario passare dal primato delle attività (anche quelle religiose) al primato della relazione. È il vocabolario della relazione interumana quello che assume centralità”.

Il sogno di una Chiesa che si rinnova e cammina per nuove strade, è allora solo all’inizio.