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Io sto con la sposa (e con Manar)

di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 3 minuti
gio 18 dic 2014 15:26 ~ ultimo agg. 19 dic 15:13
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Tasnim è bellissima, di una bellezza malinconica e sofistica. È lei la sposa, ed è lei a pronunciare alcune delle frasi più intense del film: “C’è un sole unico per tutta l’umanità, una sola luna. Anche il mare è di tutti, così la vita. È di tutti e per tutti”. Come è possibile che alcuni siano liberi di attraversare il mare, mentre per altri farlo significa rischiare di morire?

Ahmad e Mona sono marito e moglie, sembrano personaggi usciti da un film di Ozpetek. Non sono giovanissimi, ma si tengono per mano come due adolescenti innamorati. Lei ha sempre detto che non avrebbe mai lasciato la Siria, lui le aveva promesso di portarla in Francia…e alla fine ci è riuscito.

 

Alaa al-din è un uomo alto, con una grande dignità e orgoglio, e un forte senso della famiglia. Si chiede come sia possibile che uomini e donne arrivino a pagare cifre esorbitanti per affrontare un viaggio della speranza e, a volte, morire. Con lui c’è suo figlio Manar, che mi ha subito rubato il cuore. Ha 12 anni, la sua passione è il rap, ha una proprietà di linguaggio e una furbizia che lo fanno apparire più grande…ma anche quegli occhi teneri e profondi e il naso un po’a patata che gli restituiscono tutta la sua fanciullezza e innocenza.

 

E infine Abdallah: giovane studente, ha già conosciuto da vicino la morte e la disperazione. È uno dei sopravvissuti alla strage di Lampedusa dell’11 Ottobre, era su quella barca che ha visto annegare in mare 250 persone.

È proprio grazie a lui che nasce l’idea del film: un pomeriggio a Milano in cui alla stazione di Porta Garibaldi incontra Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry e Tareq Al Jabr e chiede loro dove prendere un treno per la Svezia.

 

La Svezia: sogno proibito di tanti rifugiati in fuga da paesi in guerra come i protagonisti di questo film documentario.

Un viaggio che ha realmente coinvolto 23 persone tra palestinesi, siriani e italiani: giornalisti, operatori sociali e cooperanti ma anche una troupe di operatori guidati dal regista Antonio Agugliaro.

Obiettivo: raggiungere la Svezia partendo da Milano e attraversando la Francia, la Germania e la Danimarca, quattro giorni e tremila chilometri, inscenando un corteo nuziale. Perché, “quale poliziotto di frontiera chiederebbe mai i documenti a una sposa?”

 

Un film che gli autori definiscono: “una storia fantastica ma al tempo stesso dannatamente reale”. Un film che ha un po’ il sapore delle atmosfere di Kusturica e di Mihăileanu, un film che chiede di schierarsi, di scegliere da che parte stare.

E non è un caso che sia nato da una produzione dal basso: oltre 2.000 persone che attraverso il crowdfunding hanno finanziato l’opera, scegliendo apertamente di stare dalla parte della sposa.

Un film che è soprattutto un viaggio: per attraversare la “Fortezza Europa”, e dimostrare che il Mediterraneo, culla della nostra civiltà, può essere ancora un mare che unisce invece che dividere.

 

Del film mi è piaciuto lo sguardo non retorico ma concreto e reale di chi ha conosciuto e visto la guerra con i propri occhi. I rifugiati protagonisti del film non appaiono qui come vittime ma in tutta la loro autentica umanità: con la loro ironia, nostalgia, coraggio e fragilità.

E poi c’è Manar. Manar ha lo stesso sorriso di Ahmed, Mohammed, Nordin, Omar…di tutti i ragazzi che ogni giorno intrecciano le nostre esistenze di operatori impegnati in percorsi di accoglienza. Ragazzi con un progetto che, come canta Manar, “o fallisce o sparisce”.

Ragazzi a cui vorremmo restituire un po’di speranza e di fiducia nel futuro, che è un loro diritto, a dispetto di tutte le discriminazioni e i pregiudizi con cui si trovano ogni giorno a convivere e a lottare in un paese che sembra almeno all’apparenza sempre meno accogliente e solidale.

 

E allora, non posso fare a meno di sentirmi ancor più dalla sua parte e di cantare insieme a Manar:

 

Voglio raccontare la mia vita con le mie parole

Perché durino nel tempo.

Per me è solo l’inizio.

L’inizio della libertà.

Fratello, è un mio diritto!

Sul serio fratello, è una responsabilità.

Penso a quando vivevamo felici in Palestina

E adesso siamo rifugiati, di nuovo in fuga.

Che Dio abbia misericordia di noi rifugiati.

Siamo bambini normali,

vogliamo un po’di tenerezza.

Torneremo in Palestina, riavremo ciò che è nostro”

Silvia Sanchini

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