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Un mare di scrittura: intervista a Fabio Geda

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Tempo di lettura lettura: 4 minuti
mer 16 lug 2014 13:03 ~ ultimo agg. 00:00
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Da una laurea in marketing a educatore per una comunità per minori a scrittore di successo. Un percorso inedito e affascinante che ha segnato la vita di Fabio Geda, che abbiamo avuto il piacere e la fortuna di incontrare nell’ambito del Festival “Mare di Libri” lo scorso 14 Giugno a Rimini, al Teatro degli Atti, prima della sua partecipazione allo spettacolo: “Viaggio nel Mediterraneo: da Ulisse ai migranti di Lampedusa”.

Torinese, classe 1972, vive tuttora a Torino ma gira il mondo insieme ai suoi libri.

Un romanzo d’esordio nel 2007 (Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani) e poi nel 2010 il vero boom con un racconto che è diventato ormai un classico della lettura per ragazzi e non solo: Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari (Dalai 2010), la storia dell’incredibile viaggio di un ragazzino afghano per raggiungere l’Italia e ottenere lo status di rifugiato politico. Un libro che ha fatto il giro del mondo e che è stato tradotto in oltre trenta paesi.

Oltre a scrivere romanzi, Geda collabora come giornalista de “La Stampa” e con la Scuola Holden di Torino.
La sua ultima fatica letteraria, Se la vita che salvi è la tua, è stata da poco pubblicata per Einaudi.

Da una laurea in Marketing alla scelta di lavorare come educatore…come è avvenuto questo deciso cambio di rotta?
Sicuramente c’è stata una componente vocazionale molto forte. Nella mia storia personale c’era stata sia l’esperienza dello scoutismo che quella come obiettore di coscienza con i Salesiani ed entrambe hanno fortemente segnato la mia formazione e la mia sensibilità. La laurea in marketing è stata una parentesi, ma in realtà la curiosità che avevo per il lavoro educativo era sempre molto forte. L’impatto con il lavoro nel quartiere San Salvario, una zona della città di Torino con una forte presenza di immigrati, è stato decisivo. Sentivo dentro di me una vera e propria fiamma che mi spingeva ad occuparmi dei più deboli, una fiamma su cui più volte, però, credo che la società abbia soffiato affinchè si spegnesse. Se penso infatti alla mia motivazione e al mio entusiasmo non posso però negare anche le frustrazioni, le fatiche, i problemi con cui quotidianamente deve scontrarsi chi lavora in ambito educativo e sociale.

Sempre in quel periodo hai lavorato anche in una comunità per minori, esperienza che hai raccontato nel romanzo L’esatta sequenza dei gesti (Instar 2008) …
Sì e anche di quel periodo durato dieci anni ho ricordi ambivalenti. Da un lato una grande passione e la bellezza delle relazioni educative che si instaurano con i ragazzi, tutti giovani con percorsi familiari e personali molto difficili alle spalle. Dall’altro lato però anche una profonda frustrazione, quasi un senso di martirio per una professione che deve affrontare tutta una serie inenarrabile di fatiche: dallo scarso riconoscimento sociale alla mancanza cronica di soldi, fino alla spiacevole sensazione che il proprio punto di vista non sia mai tenuto in considerazione perché poi, alla resa dei conti, sono i Tribunali e i Servizi sociali a prendere le decisioni importanti, come se l’educatore (che dei ragazzi vive la quotidianità) fosse l’anello più debole della filiera educativa. E questo causa malessere, un forte turn over degli operatori che lavorano all’interno di queste strutture e che è davvero deleterio perché rende più difficile favorire il senso di appartenenza e costruire qualcosa di solido. Insomma ho sperimentato sulla mia pelle come quella fiamma forte che sentivo dentro di me doveva essere tenuta accesa contro tutto e contro tutti e non era sempre facile resistere.

E la passione per la scrittura, invece, come l’hai scoperta?
Ho sempre scritto, tanto, in particolare narrativa e romanzi. È la cosa che sentivo di fare meglio. Il vero giro di boa è stato però nel momento in cui mi sono reso conto che le storie dei miei ragazzi potevo non solo viverle ma anche raccontarle. Il mio modo di prendermi cura di loro è diventato allora quello di parlare delle loro storie affrontando temi di cui in Italia la letteratura parla ancora poco. La svolta è stato naturalmente l’incontro con un giovane come Enaiatollah e la possibilità di raccontare la sua vicenda nel libro Nel mare ci sono i coccodrilli.

Il tuo ultimo romanzo, Se la vita che salvi è la tua, come è nato e di cosa racconta?
In realtà è una storia molto diversa dalle precedenti. Prima al centro dei miei romanzi c’erano sempre gli adolescenti, oggi non sono più un educatore ed è più difficile parlare di loro ma per fortuna la mia curiosità è sufficiente a elaborare storie nuove. Nonostante le differenze con i precedenti romanzi, Se la vita che salvi è la tua tratta però di alcuni temi ricorrenti nelle mie opere: il tema dell’identità e delle relazioni, il tema del viaggio (o, meglio, della fuga) e il tema dell’educazione intesa come sguardo al futuro. Il libro infatti è la storia di un insegnante precario che fugge a New York per una vacanza solitaria che si trasforma invece in un’esperienza dove scoprire le miserie dell’umanità e al tempo stesso la sua ricchezza e dove rimettere in discussione ogni scelta, per ritrovare se stessi.

Del tuo impegno educativo e sociale, oggi, cosa rimane?
Prima avevo un’idea molto “local” dell’impegno sociale, ero convinto di dover combattere per il posto in cui vivevo rimanendo legato a quel luogo. Oggi invece ho un pensiero più globale, viaggio dietro ai miei libri…pur continuando a considerare Torino casa mia. Il mio impegno sociale è soprattutto un impegno intellettuale e culturale, un impegno a costruire reti e sinergie positive. E poi c’è un’idea di fondo che ancora mi disturba moltissimo: l’idea che se facciamo del bene non possiamo guadagnare. L’assurdo pregiudizio che chi lavora in campo sociale debba essere un martire votato alla causa senza alcuna soddisfazione e gratificazione. Mi viene in mente il libro “I buoni” di Luca Rastelli o una recente conferenza di Dan Pallotta dal titolo: “The way we think about charity is dead wrong”. E’ un paradosso: se costruisco videogiochi o cellulari e guadagno milioni di dollari finisco sulla copertina del Times, se guadagno soldi magari per aver inventato un vaccino o risolto un problema sociale vengo considerato un disgraziato, che specula sulle sfortune altrui. Io credo che dobbiamo superare questo dualismo e l’idea che il lavoro sociale non debba essere riconosciuto anche economicamente se vogliamo davvero cambiare il mondo attraverso l’azione di quelle persone che, silenziosamente e coraggiosamente, ogni giorno dedicano la loro vita agli altri.

Silvia Sanchini
Nella foto Fabio Geda e Enaiatollah Akbari

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