Ricevuto pubblichiamo: un commento sui carabinieri alla mensa dei poveri


IL DISAGIO E LA RETATA
Giuseppina è un’operatrice di una casa di accoglienza da venticinque anni. Siamo sedute una di fronte all¹altra una sera d¹estate, a Trento. L¹abbiamo fatto tante volte nei due mesi che ho trascorso in quella casa, ospite accolta e accogliente.
Nel cuore del disagio.
La guardo negli occhi e le dico, secca: “Il punto è che a voi lasciano il lavoro più sporco. La politica non capisce, né a destra (dove prevale la chiusura) né a sinistra (dove prevale la logica del come siamo belli, siamo tutti fratelli). Ai cattolici rimane il lavoro sporco, quello che nessuno vuole fare, perché è il più difficile: accogliere, aiutare e sostenere chi si trova in difficoltà”.
Due mesi in una casa di accoglienza e mi è passato quel briciolo di buonismo che potevo avere. Di fronte al disagio non si reagisce con un semplice: “poverino”.
Il disagio e la povertà, più sono veri, più sono difficili da scandagliare.
Perché sono pieni di contraddizioni di fronte alle quali lo sguardo di chi offre aiuto non può guardare in una sola direzione. Perché chi chiede aiuto ha urgenza di riceverlo, ha delle grosse aspettative.
Soprattutto se si tratta di un immigrato straniero che arriva dal suo paese in una situazione di miseria.
La prima reazione di fronte alle sue urgenze è: “Ma qui non siamo nel paese dei balocchi!”. Tante sono le difficoltà che ogni giorno, anche in un paese democratico, anche in paese ricco, come l’Italia, esistono per chi cerca lavoro e lo trova, ma magari in nero, senza dirittti.
Mentre argomento Giuseppina mi guarda con un sorriso sereno, di chi di certo ne ha viste passare molte più di me. E dice più o meno: “Cosa dovremo fare, allora? Si aiuta, si va avanti”.
Ho pensato molto a quel dialogo a tratti drammatico, della scorsa estate, in questi giorni in cui Rimini, la mia città di residenza si è trovata catapultata sulle prime pagine dei giornali nazionali per un episodio che si potrebbe classificare sotto il nome di “effetto perverso della legge Bossi Fini”.
La storia: in una mensa, gestita da religiosi, frati cappuccini, si dà da mangiare ai poveri, per lo più stranieri. Sono molti, a volte fanno chiasso e disturbano la quiete della zona residenziale. Si costituisce un comitato, parte la denuncia, scatta la retata. Che arriva nel bel mezzo della distribuzione di un pasto. Vengono trovati degli irregolari.
L’analisi: non ce la si può prendere con i carabinieri, esecutori materiali dell’atto, sarebbe una reazione alquanto semplicistica. Più sensato è, invece, pensare a questo episodio nell’ottica della cultura che sta passando e che in esso rischia di trovare un precedente: punizione nei confronti dello straniero senza guardare in faccia a nessuno. Senza rispetto, con rabbia.
E allora attenzione, perché chi impugna il principio del rispetto della legge rischia di passare dalla parte della ragione a quella del torto. E questo anche e soprattutto chi sta dalla parte della giustizia e da quella della solidarietà non lo vuole.
Non lo vuole proprio chi quel lavoro sporco è portato a farlo quotidianamente. Con il pizzico di follia di chi nell’Italia del 2002 sceglie di stare dalla parte dei rifiuti della società e lo fa mica per moda, ma per convinzione, di chi con quella puzza, con quello sporco, con quelle differenti culture che richiedono comprensione e mediazione ha scelto di scontrarsi ogni giorno ed ogni giorno viverlo nella difficoltà di risolverli i problemi, non di metterli da parte con l’azione dimostrativa.
Perché i poveri alla mensa dei frati torneranno ed i frati apriranno loro ancora una volta la porta. E non negheranno loro un pasto caldo, proprio ora che si avvicina l’inverno.
La voce più forte che si è levata indignata di fronte a questo atto è stata quella del Vescovo: l’unico che ha avuto il coraggio di prendere una posizione netta. Il resto, per lo più, silenzio.
Ecco alcune delle sue parole: “L’operazione dei carabinieri suscita molto stupore e sconcerto: si è trattato di un fatto clamoroso e indiscriminato, non in presenza di reati specifici, durante un’iniziativa promossa dalla comunità ecclesiale, senza il permesso dell’Autorità ecclesiastica e senza averla preavvisata”.
Il Vescovo chiede ancora: “Se la Caritas e le organizzazioni cattoliche non svolgessero iniziative di solidarietà, chi penserebbe agli indigenti che vivono nella nostra società opulenta? Le Forze dell¹ordine, i comitati? E se la Chiesa afferma provocatoriamente chiudesse la Caritas e tutte le sue opere di carità?”
Rimini, 2002, nel cuore dell’opulenza succede anche questo. Pensiamoci non lasciamo che il frastuono proveniente da una delle tante discoteche ci riempia ancora la testa e ci faccia dimenticare. Una comunità fraterna, solidale e rigorosa si costruisce anche dagli errori.