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Lilana Segre. Laura Fontana racconta il suo incontro con la neo senatrice a vita

In foto: Liliana Segre in uno dei suoi incontri a Rimini
Liliana Segre in uno dei suoi incontri a Rimini
di Simona Mulazzani   
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dom 21 gen 2018 10:38 ~ ultimo agg. 10:41
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Laura Fontana, responsabile dei progetti alla memoria per il comune di Rimini, regala un tratteggio intenso e appassionato del suo legame con Liliana Segre, una delle ultime sopravvissute ai campi di concentramento, nei giorni scorsi nominata dal Presidente della Repubblica Sergio Matterella Senatrice a vita. Nel racconto della Fontana si legge di una donna coraggiosa e determinata, una donna che ha sempre tenuto lontano da se quel pietismo che rischia di annebbiare il senso della tragedia della Shoah.

“Il mio incontro con Liliana Segre: una donna straordinaria che testimoniando l’orrore patito ad Auschwitz è riuscita a cambiare la vita di tante persone.
Il caso ha voluto che giovedì scorso (18 gennaio), nel momento in cui Liliana Segre, sopravvissuta italiana di Auschwitz, riceveva la telefonata del Presidente Mattarella con la quale le annunciava la nomina a senatrice a vita, io stessi proprio parlando pubblicamente di lei in occasione della mia conferenza per la città di Rimini sul tema delle donne nella Shoah.
Nell’ambito del lavoro che da molto tempo ho scelto di svolgere per trasmettere la memoria della Shoah sono tante le occasioni in cui cito Liliana. Mi piace ricordarla e ispirarmi, in un certo senso, a lei, non solamente perché la sua, tra altre testimonianze dell’inferno di Auschwitz, racchiude per me tutto il senso dell’attaccamento alla vita anche in condizioni estreme, ma anche per quello che ho imparato nelle diverse conversazioni private che ho avuto il privilegio di condividere con lei nella sua casa di Milano e di Pesaro.
Conosco Liliana da più di vent’anni e l’incontro con lei è stato uno di quelli che più mi hanno segnato, insieme all’incontro con Shlomo Venezia, perché attraverso il dono della sua testimonianza mi ha insegnato il senso del coraggio, della vita, della determinazione, del dialogo per la costruzione di una cultura fondata sulla pace e sulla solidarietà.
Non si sa perché nella vita qualcuno ci scelga tra tante altre persone che incontra. Mi sono chiesta spesso perché Liliana e Shlomo mi abbiano accolto tra le loro persone più care, manifestandomi grande stima e affetto e permettendomi di avvicinarli al di fuori delle occasioni ufficiali, nel privato e nella quotidianità, in modo da ampliare la reciproca conoscenza e il dialogo non solo sul tema della Shoah ma più in generale sul senso della vita.
La nomina del Presidente della Repubblica di senatrice a vita per Liliana Segre è il giusto riconoscimento per l’impegno che una donna ha svolto, e tuttora svolge, per tenere viva la memoria della Shoah ma anche per parlare, in particolare alle giovani generazioni, del valore della solidarietà e della pace, con parole sempre ferme, misurate, sobrie nel cercare di contenere i confini di un orrore impossibile da raccontare, se non al prezzo di una selezione dei ricordi e per frammenti, ma parole sempre chiare e potenti che non consentono alcun fraintendimento, né lasciano lo spazio per scorciatoie consolanti su quanto è avvenuto.
Liliana ha sempre tenuto a ricordare che gli ebrei italiani, come gli ebrei europei che hanno subito la Shoah, sono stati condannati a morte per la colpa di essere nati ebrei, sottolineando che il crimine più grande di tutti è stato l’indifferenza. Quell’indifferenza che relegò i cittadini italiani ebrei in un angolo buio, in una trappola da cui molti non uscirono vivi, che vide la famiglia Segre respinta dalla società, cacciata dal proprio posto, denunciata alla frontiera mentre tentava di mettersi in salvo.
Indifferenza è il termine che Liliana ha voluto far scolpire a caratteri cubitali sul muro di ingresso del Memoriale della Shoah di Milano , creato nel 2013 sul posto esatto dell’area sottostante il piano dei binari della stazione ferroviaria centrale da dove partirono – esattamente dal binario 21 – da dicembre 1943 a gennaio 1945, una ventina di convogli stipati di ebrei e oppositori politici verso Auschwitz e verso i campi di concentramento in Germania.
Per Liliana le parole non sono mai stata retorica, d’altronde è una delle poche testimoni che si è sempre tenuta attaccata al suo racconto personale, evitando di sovrapporlo a conoscenze e letture posteriori sui lager e sulla Shoah. Il suo racconto di Auschwitz è una narrazione lucida che assume il valore di impegno politico per una donna che, pur non dimenticando mai la bambina che è stata negli anni dell’umiliazione, dell’esclusione e della prigionia ad Auschwitz e negli altri lager, ha saputo guardare con pietà e umana commozione anche al dramma di altri bambini e adulti perseguitati o cacciati di casa in epoca contemporanea.
Nel 2015 proprio Liliana ha preso la decisione, accogliendo la sollecitazione della Comunità di Sant’Egidio, di aprire le porte del Memoriale ai rifugiati siriani ed eritrei, offrendo ospitalità e conforto per le ore più fredde della notte, un’attività che prosegue anche oggi, parallelamente alle tante attività di formazione storica e pedagogica che il Memoriale svolge per le scuole e per la collettività. Un gesto concreto che per Liliana ha significato mostrare l’esigenza di rompere l’indifferenza rispetto alla sofferenza degli altri.
Nata a Milano il 10 settembre 1930 da una famiglia ebrea laica, Liliana Segre cresce con l’amatissimo padre, Alberto e coi nonni paterni, poiché la mamma muore prima del compimento del suo primo anno di età.

Con la promulgazione delle leggi razziali dal settembre 1938, l’Italia discrimina i cittadini italiani di origine ebraica, privandoli dei loro diritti e decretando come prima misura l’espulsione da tutte le scuole e università pubbliche degli alunni, studenti e insegnanti ebrei. La notizia dell’esclusione dalla scuola segna un trauma indelebile per Liliana e uno spartiacque tra la vita serena di prima e quella densa di preoccupazioni del padre e dei nonni che si avvia da quell’anno; ma soprattutto, nella sua coscienza di bambina rappresenta anche il primo momento in cui capisce di essere ebrea e quali conseguenze questo avrebbe avuto su di sé e sulla sua famiglia:
“Non avevo mai sentito parlare di ebraismo quando, una sera di fine estate, mi sentii dire dai miei familiari che non avrei più potuto andare a scuola. (./…) – Perché Cos’ho fatto di male?, chiesi, e intanto mi sentivo colpevole, colpevole di una colpa che mi restava sconosciuta.
Solo negli anni capii che la colpa era la colpa di essere nata ebrea: colpa inesistente, paradosso artificiale ma allora spaventosamente reale.”
Liliana ricorda la profonda solitudine e il senso di ingiustizia che la fecero molto soffrire per sentirsi rifiutata dalla scuola pubblica, ma anche segnata a dito dalle altre compagne come “l’ebrea”, dimenticata a tutte le feste o esclusa dalle occasioni di svago tipiche dei bambini della sua età.
L’applicazione delle leggi contro gli ebrei alimenta in Italia un clima generale di indifferenza per le sorti di quella piccola minoranza che da secoli era profondamente integrata nel tessuto sociale, culturale e politico della nazione. Un numero sempre crescente di divieti e di misure persecutorie rende gradualmente molto difficile la vita delle famiglie ebree, principalmente per la perdita del lavoro e l’esclusione sociale, oltre che per sentirsi oggetto di disprezzo e di scherno nella propaganda di Stato che bolla gli ebrei italiani come nemici estranei alla nazione.

L’8 dicembre 1943, Liliana e suo padre, mentre tentano di sconfinare in Svizzera, vengono respinti dalle guardie di frontiera e consegnati alla polizia italiana che li arresta. Dopo l’esperienza del carcere di San Vittore, dove Liliana viene rinchiusa per 40 giorni in una cella insieme ad una ventina di altre donne ebree di ogni età, il 30 gennaio 1944 è trasferita col padre e seicento altre persone alla stazione centrale di Milano. Da qui viene deportata su un treno merci con destinazione Auschwitz-Birkenau.
Pochi mesi dopo, nel giugno 1944, anche i nonni paterni vengono arrestati a Inverigo (Como) dove erano sfollati e deportati ad Auschwitz dove sono uccisi nelle camere a gas.
All’arrivo al campo, Liliana viene brutalmente separata dal papà che da quel momento non rivedrà mai più e si ritrova sola a superare la selezione per diventare una lavoratrice schiava per il Reich. Non ha nemmeno 14 anni. La sua altezza che la fa sembrare più adulta le consente probabilmente di far credere al medico delle SS che quel giorno ispeziona i deportati appena arrivati per dividerli tra abili al lavoro e inabili da inviare alle camere a gas, che quella ragazzina sia abbastanza grande e forte per poter essere utilizzata come lavoratrice. Da quel momento Liliana, tatuata col numero di matricola 75190 viene assegnata al lavoro di operaia nella fabbrica di munizioni della Union (che apparteneva alla Siemens e si trovava nel complesso di oltre 40 campi che componevano la galassia concentrazionaria di Auschwitz); sopporterà da sola mesi di umiliazione, fame, freddo, botte e fatica, vedendo intorno a sé scene di un orrore indicibile. Probabilmente fu proprio la possibilità di lavorare al coperto, evitando di esporsi direttamente al gelo dell’inverno polacco, che le permetterà di resistere un anno intero in quell’inferno. Durante quei lunghissimi dodici mesi nel lager, Liliana supera altre selezioni, ma vede continuamente morire intorno a sé migliaia di persone di ogni età, tra cui bambini e ragazzi giovanissimi. Nella giovinezza della sua età e priva di adulti di riferimento che possano aiutarla a capire le regole di quell’inferno che è il campo, Liliana si inventa una sua personale strategia di sopravvivenza:
“Io avevo paura di ciò che i miei occhi potevano vedere. Allora avevo scelto un dualismo dentro di me, una sovrapposizione di realtà diverse: ero lì con il mio corpo, che pativa il freddo, la fame e le botte, ma non lo spirito abitavo altrove.”
Mentre il suo quotidiano è scandito dagli ordini, dalla brutalità e dalla disumanizzazione imposta dalle SS, Liliana immagina di essere fuori dal recinto di filo spinato, in un altrove fatto di prati per correre e mari per nuotare, ma soprattutto, in una notte tersa sceglie una stellina nel cielo in cui si identifica: “Io sono quella stellina. Finché la stellina brillerà nel cielo io non morirò, e finché resterò viva io, lei continuerà a brillare.”
Proprio l’episodio della stellina e della sua strategia di resistenza che le permise di attaccarsi alla vita sono stati per me un esempio concreto quando, in un momento di sofferenza della mia vita, ho capito come potevo tentare di superare la prova del dolore e della malattia,cercando di fare astrazione dal corpo e dalla sofferenza fisica e psichica come aveva fatto la giovanissima Liliana. L’ho sentita molto vicina a me, pur consapevole dell’enormità del paragone, ma gliel’ho detto più volte a Liliana che il ricordo della stellina mi aveva molto aiutato e ho voluto ringraziarla anche pubblicamente per avermi donato questo ricordo, in occasione di una delle sue quattro testimonianze tenute a Rimini per gli studenti e gli insegnanti.

Evacuata con altre migliaia di prigionieri, uomini e donne, dal complesso di Auschwitz verso la metà di gennaio 1945, Liliana Segre viene liberata dall’Armata Rossa, dopo un periplo faticosissimo di spostamenti da un lager all’altro, nel campo di Malchow, sottocampo di Ravensbrück (Germania settentrionale) il 1 maggio. Non ha ancora 15 anni, è una ragazzina scheletrica e sfinita che sembra aver vissuto mille anni tanto si sente vecchia, ma scopre di sentirsi libera dall’odio nel momento in cui rinuncia a prendere una pistola che trova a terra e all’istinto di sparare ad una delle sue guardie.
Il suo rientro a casa e il lento ritorno alla normalità sono stati segnati, come per tanti altri sopravvissuti, da un clima di generale indifferenza per i racconti della deportazione, dalla vergogna dell’umiliazione patita, dal peso del silenzio per tenersi dentro un dolore troppo grande per poter essere espresso a parole sia coi famigliari che a scuola. Impossibile condividere questi ricordi con le altre adolescenti che Liliana incontra in quel difficile periodo di ritorno alla normalità. Pochi anni dopo, Liliana ha la fortuna di incontrare a Pesaro l’amore della sua vita, Alfredo, con cui si sposa ed avrà tre amatissimi figli.
La città di Pesaro, insieme a quella di Milano, sarà sempre la sua città del cuore, il luogo dove Liliana tuttora trascorre l’estate e parte delle festività dell’anno, anche perché è a Pesaro che è sepolto l’amato Alfredo scomparso qualche anno fa.
Per quarant’anni, Liliana Segre non ha mai voluto parlare di Auschwitz, ma una volta diventata nonna, dopo un lungo percorso interiore, con la maturità di un’età più avanzata e nella consapevolezza dell’importanza della testimonianza della Shoah, dal 1990 ha rotto il silenzio che si era imposta per proteggersi e ha incominciato a raccontare.
Da allora Liliana Segre ha incontrato migliaia di studenti in Italia e all’estero, è venuta quattro volte a Rimini a parlare agli studenti e agli insegnanti della nostra città, e a loro ha raccontato la sue sensazioni di bambina in un mondo di adulti in guerra, esortandoli a impegnarsi a fondo per costruirsi una vita fondata sul bene e sulla verità.
Liliana ama moltissimo la musica classica, è abbonata da più di dieci anni alla Sagra Musicale Malatestiana promossa dal Comune di Rimini e ogni anno a settembre ho la gioia di rivederla ai concerti sinfonici della mia città, sempre bellissima e fiera in un’eleganza innata, eppur sempre sobria, che la fa incedere con l’autorevolezza e il carisma di una regina in mezzo al pubblico.
Ma io ricordo anche la mia Liliana più privata, la mia Lilli, di inviti a pranzo a casa sua, di messaggini, di libri che mi regala, di lei che mi telefona o mi scrive per chiedermi senza giri di parole cosa ne penso di quel libro o di quell’autore, facendomi sentire sempre importante e intelligente per i consigli che mi chiede. Una volta, in particolare, mi chiamò col suo tono diretto, sempre privo di fronzoli, eppure mai freddo, per dirmi che mi voleva parlare e mi invitava a raggiungerla a Pesaro. Era estate e dopo una mattinata di lavoro, presi un treno e la raggiunsi. Dopo pranzo, tutte e due stese sul divano a riposare e a chiacchierare, mi chiese consiglio per un invito importante che aveva ricevuto all’estero, in cui aveva solo venti minuti a disposizione per poter raccontare qualcosa della sua esperienza, nell’ambito di una tavola rotonda con altre persone in qualche modo salvatesi da tragedie. Liliana ha sempre detestato avere vincoli di tempo per parlare, perché sa lei che cosa dire e il tempo necessario per dirlo, non le servono presentatori o commentatori, il suo racconto procede sempre fluido, con inizio e una fine che consentono a tutti di entrare diritti nella sua testimonianza. Quella volta espresse la sua difficoltà e perplessità ad accettare. “Cosa posso dire io in mezzo ad altre persone che hanno vissuto storie completamente diverse e in soli 20 minuti?”. Le suggerii, d’istinto, di rovesciare il suo racconto partendo dalla fine, cioè da come si era salvata, lei che si è sempre definita una persona normale, qualsiasi, senza particolari doti o talenti, e di risalire a ritroso per provare a spiegare che cosa le aveva permesso di tenersi attaccata alla vita in un inferno dalle regole incomprensibili. Le consigliai anche di dichiararsi, in quel contesto così particolare, cioè non centrato sull’esperienza della deportazione né della Shoah, una sopravvissuta di Auschwitz ma poi di costruire una testimonianza in cui far emergere che lei, Liliana, era stata capace nella sua vita di essere molto altro, una madre, una moglie, una nonna affettuosa e presente, una donna impegnata, una testimone di pace.
Ci scambiammo qualche idea per impostare la sua testimonianza, ma sapevo perfettamente che poi Liliana avrebbe fatto di testa sua, come era giusto che fosse. Ma mi fece un immenso piacere quando, settimane dopo, mi fece sapere che quella modalità “aveva funzionato” ed era riuscita anche in un tempo così compresso a dire l’essenziale del suo racconto. Perché come mi ha insegnato un’altra straordinaria donna sopravvissuta ad Auschwitz che ho incontrato, Goti Bauer, una delle sofferenze più intense che vive colui o colei che decide di testimoniare sull’esperienza della Shoah vissuta, è il timore di ridurre il proprio discorso ad uno schema narrativo ripetitivo, ma anche di dimenticare o non poter dire pezzi di verità che per varie ragioni non possono rientrare nella testimonianza pubblica.
Liliana i schermisce quando le dico che le voglio bene ma so che me ne vuole tanto anche lei. Quando le invio il programma di Attività di Educazione alla Memoria che curo per Rimini, è lei la prima persona che, dopo pochissimi minuti, risponde via mail con un messaggio di apprezzamento, di lode per il lavoro svolto e soprattutto di incoraggiamento.
Liliana mi fa sentire migliore anche quando sento la fatica di lavorare su un tema così importante e complesso, mi sprona a non commiserarmi nelle difficoltà quando nei suoi discorsi pubblici ricorda il valore della vita e termina la sua testimonianza dicendo sempre ai ragazzi “Non dite mai non ce la faccio più, perché il corpo umano e la mente sono talmente forti e straordinari da riuscire a compiere autentici miracoli”.
Mi piace di lei anche la sua ostinata volontà a non lasciarsi usare come testimone, ma a decidere lei come e quando essere anche una testimone. Liliana non si fa fotografare col tatuaggio sul braccio, non mostra nessuna immagine d’epoca, non vuole compiacere un certo voyeurismo che scruta il sopravvissuto cercando prove tangibili di ciò che racconta, è tra i pochi reduci ebrei italiani che non ha mai voluto tornare ad Auschwitz, perché dice che non ha bisogno e non vuole rivedere quel luogo, Auschwitz ce l’ha scolpito nei suoi ricordi più dolorosi.
Alla stampa che in queste ore le ha chiesto quale fosse la sua reazione nell’apprendere la notizia della nomina di senatrice a vita, Liliana ha risposto: “Non posso darmi altra importanza che quella di essere un araldo, una persona che racconta ciò di cui è stata testimone. Sono una donna di pace, una donna libera: la prima libertà è quella dall’odio.”
Pur rivendicando sempre la sua normalità di essere e sentirsi “una qualunque”, respingendo quindi ogni tentativo di fare di lei un’eroina su un piedistallo, Liliana costituisce un esempio di altissimo livello morale e di coerenza, una donna straordinariamente combattiva che a 87 anni avrà ancora tanto da insegnare a me e a tutti coloro che avranno l’immenso privilegio di ascoltare le sue parole.

Laura Fontana, 20 gennaio 2018