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Aiutiamo tutti. E allora gli italiani?

di Stefano Rossini   
Tempo di lettura lettura: 5 minuti
lun 29 gen 2018 18:11 ~ ultimo agg. 30 gen 12:02
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Dicembre 2017, la cooperativa riminese Condivisione fra i Popoli pubblica su facebook un video in cui promuove le attività svolte in giro per il mondo. Stefano Vitali, ex presidente della provincia di Rimini e attivista della cooperativa lo rilancia. Parte la gogna mediatica: “Ma è possibile che l’Italia si deve preoccupare di tutto il mondo meno degli italiani che sono in povertà, forse perché con gli altri ci mangiano e con gli italiani no?”, scrive un utente. Un altro aggiunge: “Signor condivisione dei popoli, in Italia non si fanno bambini per paura di non riuscire a mantenerli quindi come potete chiedere di mantenerne altri?”, o ancora: “Ci sono tanti bambini in Italia in difficoltà e si possono adottare senza prenderli a casa del diavolo”.
Questo è solo uno dei tanti, troppi esempi di quello che accade quotidianamente sui social. Sempre per rimanere sul locale, pochi mesi fa la stessa situazione si era vista sulla pagina “Sei di Riccione se…” alla notizia dell’accoglienza di una decina di migranti in una struttura privata.
Anche in questo caso i commenti andavano da: “No… a Riccione no!”, al più generico: E basta”, fino ad auguri ben peggiori, cancellati dagli utenti dopo che il post è stato segnalato, tra cui: “Dategli fuoco”, fino a: “No affogateli. Vi prego a Riccione no”.

Perché quando qualcuno manifesta della solidarietà verso delle persone svantaggiate, spesso straniere, la reazione è questa?
“Penso che facciano parte della cultura dominante che c’è in questo momento che è figlia principalmente della crisi economica. – dice Stefano Vitali – Se pensiamo agli anni ‘80 e ‘90, quando aiutare i paesi in via di sviluppo era un motivo di vanto e di orgoglio. La crisi economica ha cambiato tutto: quando ci siamo accorti di essere meno ricchi e di avere delle difficoltà abbiamo cominciato a pensare a noi stessi. Questo, amplificato dai social, ha creato una cultura dominante. Penso che alcune volte sia difficile rispondere razionalmente. Ad esempio, l’associazione di cui faccio parte, la Papa Giovanni XXIII, ha più di 500 strutture sparse per tutta l’Italia, quindi ovvio che aiuta gli italiani, ma questo non deve diventare una giustificazione. Se mi giustifico perdo di vista il motivo per cui faccio quella cosa”.
Vitali identifica il punto di svolta nella crisi economica, un momento in cui le persone tendono a pensare a se stesse, “perdono di vista i valori e il senso essenziale delle cose. Inoltre – continua Stefano – questo egoismo ti fa perdere di vista il senso della realtà e i reali servizi di un territorio, quello che si fa davvero tutti i giorni per le persone che hanno bisogno”.
Servizi che ci sono quindi, ma che non vengono considerati, quasi ci fosse una tensione tra l’aiuto che diamo agli altri e quello riservato a noi.

Ma quali sono questi servizi a disposizione dei cittadini?
“Il comune di Rimini ha una serie di servizi per i cittadini residenti e poi ci sono una serie di misure di carattere emergenziale umanitario, per i non residenti, quando si parla di estrema povertà. – afferma Gloria Lisi, Vice Sindaco e Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Rimini – In realtà quello che è importante è il principio con cui viene dato questo aiuto: non è un welfare non assistenziale, ma capacitante. Questo vuol dire cercare di dare alle persone più demotivate, in difficoltà e vulnerabili, le risorse per emergere dalla difficoltà. Altrimenti tutti i servizi diventano qualcosa di limitato nel tempo ma che non cambia nel lungo periodo, un modo per le persone di deresponsabilizzarsi. Le persone devono attivarsi. Questo è un cambio di paradigma importante. Una volta le difficoltà tendevano ad essere strumentalizzate. Faccio un esempio, un tempo si diceva che se ci sono dei minori in difficoltà nella famiglia, quella famiglia non può essere sfrattata, deve essere aiutata. Per noi invece è importante attivare la capacità genitoriale che possa tirare fuori le risorse affinché il genitore riesca a prendersi cura del proprio figlio: la ricerca del lavoro, un canone calmierato e tutta una serie di risorse che non siano solo assistenziali. Ecco, noi cerchiamo di attivare questa modalità sia per le famiglie, sia per i disabili e gli anziani. Per noi è un modo per dare dignità alle persone”.
“Nel 2017 – continua Gloria Lisi – in concreto abbiamo incontrato più di 2100 persone, con cui abbiamo svolto colloqui allo sportello sociale professionale in via Ducale. Oltre il 60% di questi si è rivolto a cittadini italiani. O ancora l’Emporio Solidale, un progetto del piano strategico, in collaborazione con Volontarimini, che finanziamo all’interno dei piani di zona: più del 70% delle famiglie che ne usufruisce è italiano”.

I dati, insomma, smentiscono i commenti. Non è vero che non ci sono servizi per i cittadini italiani o che questi sono presenti in maniera minore o secondaria rispetto ad altri. Ma le critiche non mancano neanche in questo caso. Altro cavallo di battaglia nei commenti è quello che le risorse per aiutare gli stranieri vengano tolte a potenziali aiuti per i cittadini italiani. Ma è così? L’abbiamo chiesto a Maria Carla Rossi, presidente dell’Associazione Madonna della Carità, dato che la Caritas mette in campo numerosi servizi sia per migranti e richiedenti asilo, come lo Sprar, sia per residenti, come la mensa, le docce, l’emporio solidale, e molto altro.
“Lo Sprar è un progetto ministeriale, le risorse investite lì non vengono tolte da altri progetti. Inoltre si cerca, con questi fondi di poter rendere i ragazzi che arrivano da altri paesi, in condizioni di povertà e difficoltà, autonomi e capaci di costruirsi un futuro. Per il resto i servizi della Caritas sono rivolti indistintamente a chi ha bisogno, come le docce, l’ascolto. Con l’avvento della crisi abbiamo attivato il fondo del lavoro, e anche in questo caso la maggior percentuale dei beneficiari sono italiani. Abbiamo da poco aperto l’ambulatorio Nessuno escluso, e anche qui riceviamo e aiutiamo chi viene, sia italiani che stranieri che passano per la nostra città”.
Nessuno escluso, un nome particolarmente azzeccato che dovrebbe essere il leit motiv di tutta la solidarietà, al posto di slogan come “Aiutiamoli a casa loro”, oppure “Prima gli italiani” – senza nulla togliere alle attenzioni che uno stato deve avere per i propri cittadini, e che, alla fine dei conti, ha.

Dati alla mano si scopre che le risorse disponibili vengono distribuite in modo equo tra i richiedenti, come dimostra anche l’assegnazione delle case popolari, altro settore che spesso viene preso a manifesto da chi afferma che i servizi sociali sono rivolti solo agli stranieri e non agli italiani.
“Il quadro che ne esce è molto chiaro – ci dice Riccardo Fabbri presidente di Acer Rimini – abbiamo tra l’altro dei dati recenti perché proprio qualche giorno fa un consigliere regionale ha fatto un’interpellanza per chiedere quanti stranieri ci sono nelle case popolari. Ad oggi abbiamo un numero di stranieri nelle case Erp fondamentalmente in linea con la popolazione riminese. Anche nella politica, però, si è visto un cambio di tendenza. Mi piace ricordare che nel 2002, su iniziativa dell’Associazione industriale e di gran parte delle categorie economiche, la provincia di Rimini siglò un patto per trovare un’abitazione per i lavoratori stranieri, non solo a prezzi accettabili, ma anche vicina al posto di lavoro”.
“È importante – conclude Fabbri – evitare un senso di superiorità morale nei confronti di chi ha bisogno e di chi si sente in pericolo. Dobbiamo cercare di capire e cercare di spiegare e convincere, facendo i conti con chi vive un grande momento di difficoltà e scarica le proprie preoccupazioni sugli altri. Su chi si sente da solo di fronte ad una realtà più complicata”.

Nessuno afferma che il sistema sia perfetto, o che qualcuno non riesca a trovare scappatoie o corsie preferenziali, ma l’idea dietro alla costruzione del welfare è che sia accessibile a chiunque ne abbia bisogno, senza distinzione di provenienza ma sulla base delle necessità, tenendo chiaro in mente che un gesto di solidarietà non ne annulla un altro, e che una società migliore, lo è per tutti.

 

 

fonte: Il Ponte