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Cosa succede a Gerusalemme dopo le parole di Trump?

di Stefano Rossini   
Tempo di lettura lettura: 3 minuti
mar 12 dic 2017 18:54 ~ ultimo agg. 19:10
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Cosa succede a Gerusalemme e in Palestina dopo la dichiarazione di Donald Trump, secondo cui “È ora di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele”. Al di là delle risposte politiche – scontate – come la soddisfazione di Netanyahu e la delusione dell’Anp e del mondo arabo (quest’ultima piuttosto tiepida in paesi come l’Egitto e l’Arabia Saudita), com’è cambiata la vita quotidiana per i residenti palestinesi di Gerusalemme, già immersi in un sistema kafkiano basato su una preziosa carta d’identità blu che attesta lo stato di “palestinesi di Gerusalemme”?

Lo chiediamo a Nisbat Serhan, palestinese di Gerusalemme e collaboratrice di EducAid, che attualmente si trova in Italia per un tirocinio al CEIS.

“Com’è cambiata? Come può cambiare una situazione che già di per sé è insostenibile e stressante? – dice Nisbat – la nostra presenza a Gerusalemme è da sempre precaria, sappiamo che da un giorno all’altro possiamo essere cacciati”.

Dopo un momento di silenzio Nisbat riprende.

“E’ ovvio che dopo questa dichiarazione mi sento più minacciata. Già siamo sommersi dalla burocrazia ogni volta che vogliamo uscire dalla città per andare fuori, le tasse sono altissime e non sappiamo se e come ritorneremo. Il futuro lo vedo incerto”.

 

E chi è rimasto là? La tua famiglia, i tuoi amici, cosa dicono?

“Da un lato sembra quasi che prendano la cosa con leggerezza. ‘Ma chi è Trump per decidere?’ E’ come se le questioni interne dell’Italia le decidesse, che ne so, la Romania. In realtà sono stanchi, vorrebbero protestare ma non sanno più cosa fare. La situazione è talmente paradossale da sembrare ridicola. Tutti concordano che le ultime intifada non hanno portato a niente”.

Nisbat ripete alcuni concetti, si percepisce la frustrazione di chi vive una situazione talmente incancrenita da diventare surreale. Però, a differenza di chi sale sul carro della protesta solo per lamentarsi, Nisbat si lancia in un’analisi che non lesina colpe anche per la politica palestinese.

“Ma poi, cosa fa anche l’Olp? La dichiarazione di Trump è unilaterale, d’accordo, ma dall’altra parte anche Abu Mazen ha solo detto: ‘non siamo d’accordo’ Ah davvero? Ma guarda un po’. Adesso sì che mi sento rappresentata. Io accuso i leader palestinesi, e anche gli altri paesi arabi.

“Eppure – continua Nisbat – le parole di Trump possono avere paradossalmente anche un effetto positivo: può essere l’occasione per dire finalmente che gli accordi di Oslo sono falliti, che è ora di pensare a un nuovo corso, che deve partire anche dall’interno. La comunità internazionale ha riconosciuto l’Anp: ora l’autorità palestinese deve fare qualcosa”.

 

Nisbat tornerà in Palestina a gennaio, senza sapere cosa la attenderà. Ma le parole del presidente americano non hanno effetto solo nella città contesa, come è facile immaginare, e come ci confermano anche Francesca Annetti, rappresentante Paese in Palestina per EducAid e Gioia Benedetti, project manager di EducAid in Palestina, con cui parliamo via Skype.

“Trump porta alla luce una situazione che già esiste – dice Francesca – decreta che il processo di Oslo è morto. I trattati internazionali sanciscono che Gerusalemme non può essere solo israeliana, ma da anni Israele si comporta come se lo fosse. Ora arriva la conferma di Trump. Ma se da un lato è chiaro che gli accordi di Oslo sono morti, dall’altro non c’è però nessuna controproposta da parte dell’Anp. E’ un argomento molto discusso qui. Si parla degli accordi di Oslo come di un lungo processo che è fallito e che non ha portato niente ai palestinesi. Il problema è quello anche della leadership palestinese e di tutto il mondo arabo. Anche le proteste che ci sono state, che qualcuno ha chiamato terza intifada, in realtà sono atti singoli, dettati dalla rabbia personale. E nel contempo aumentano le colonie israeliane nella West Bank, e Gaza è al collasso”.

“Il vero problema è la frantumazione sul territorio – dice Gioia – anche e soprattutto a causa dell’occupazione. Non c’è possibilità di coordinarsi, ognuno è circoscritto nelle proprie aree. C’è una vera e propria difficoltà organizzativa.

“Anche noi in questi giorni regoliamo le nostre attività in base ai parametri di sicurezza che ci siamo dati per i nostri beneficiari. Molti valichi e check point vengono chiusi o semplicemente il controllo diventa più stringente e muoversi è ancora più complicato. Capita che le nostre attività vengano interrotte o del tutto cancellate”.