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Rimini Social

Offesa virtuale, pena reale

di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 2 minuti
mer 12 apr 2017 07:33 ~ ultimo agg. 18 apr 10:17
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Facebook è uno degli strumenti più influenti della nostra epoca. Si può discutere in lungo e in largo della sua utilità, certamente. Ma rimane inconfutabile il fatto che Facebook ha rivoluzionato radicalmente il nostro concetto di società, socialità ed identità personale. In tutto questo, però, il social network nato dalla mente di Mark Zuckerberg nel lontano 2004 è, e rimane, uno strumento. E, come tutti gli strumenti, non può essere giudicato in sé, ma per come viene utilizzato. Trovarsi al sicuro dietro allo schermo di un computer, infatti, dà molto coraggio a chi solitamente ne è privo, permettendo così di sfogare frustrazioni, rabbia e tanta ignoranza. Il risultato? Facebook, col passare del tempo, è sempre meno luogo di socializzazione e sempre più un contenitore di odio, in tutte le sue forme. Alla luce di questo le istituzioni, la magistratura soprattutto, attraverso la Corte di Cassazione, non sono rimaste a guardare, agendo per rendere i social network, e Facebook in particolare, luoghi sempre meno simili a far west virtuali.

 

Dal Far West… al penale
Un primo passo verso la regolamentazione dei rapporti interpersonali attraverso la Rete, nella dimensione del loro inevitabile scontrarsi, è stato compiuto dalla Suprema Corte nel marzo dello scorso anno. Con la sentenza numero 8328 del primo marzo 2016, infatti, essa identifica Facebook non come mero sito Internet, ma come vera e propria pubblica piazza, anche se immateriale. Da ciò deriva, come logica conseguenza, che un qualsiasi insulto pubblicato attraverso il social network in questione è potenzialmente raggiungibile da una pluralità indistinta di persone, portando all’inevitabile offesa alla reputazione del destinatario dell’insulto. Caratteristiche, queste, che rendono l’atto dell’insulto attraverso Facebook un puro esempio di diffamazione, come esplicitamente previsto dal nostro codice penale, che all’articolo 595 recita: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032“. E, in quanto atto diffamatorio, non può essere il Giudice di pace a decidere su eventuali attacchi personali attraverso post di internet, bensì il Tribunale. Ne è un chiaro esempio la condanna per diffamazione pronunciata lo scorso 29 marzo ai danni di una 26enne riminese che, nell’ottobre del 2013, aveva criticato aspramente il noto locale Coconuts dopo una serata, sulla propria bacheca di Facebook.

 

Diffamazione o… critica?
La reputazione di un individuo, però, può anche essere offesa da una critica legittima, e non solo dagli insulti e dagli attacchi personali. Che rapporto sussiste, quindi, tra la critica, diritto tutelato e difeso dalla stessa Cassazione, e la diffamazione, che invece è punita? Per rispondere a questa domanda, occorre andare ancora più indietro nel tempo. È sempre la Cassazione a offrire la soluzione al quesito, con la sentenza numero 6902 dell’8 maggio 2012, nella quale vengono individuati i criteri che permettono ad un qualsiasi pensiero espresso di rimanere entro i confini della critica legittima, evitando di trasformarsi in atto diffamatorio: verità, pertinenza e continenza. Qualsiasi altro comportamento, dunque, che non abbia queste caratteristiche è punibile, anche se avviene attraverso un “semplice” post di Facebook.

 

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