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Rimini Vita della Chiesa

"La stella della gioia". L'omelia del vescovo alla Messa dei Popoli

In foto: la consegna del Salvagente
la consegna del Salvagente
di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 5 minuti
ven 6 gen 2017 19:07 ~ ultimo agg. 8 gen 12:38
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E’ stata la consegna di un salvagente da parte di un profugo che ha attraversato il mare uno dei momenti più significativi della Messa dei Popoli celebrata oggi pomeriggio in Basilica Cattedrale come da tradizione dal 1996, animata dalle comunità di immigrati cattolici di ogni nazione presenti sul territorio riminese. “I cristiani formano una sola grande famiglia, multicolore nella diversità”, ha ricordato il vescovo parlando di accoglienza. “La stella della gioia” il titolo dell’omelia pronunciata dal vescovo Lambiasi. Oggi il mondo e la Chiesa accusano un preoccupante deficit di gioia – ha concluso il vescovo – Il mondo ha diritto alla nostra gioia: perché è il test più attendibile dell’autentica credibilità di noi credenti”.

L’intervista a Cesare Giorgetti (Caritas diocesana)

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La stella della gioia
Omelia del Vescovo per la “Messa dei Popoli”
– Rimini, Epifania del Signore, 2017 –

I Magi: assetati di luce, esploratori d’infinito, cercatori del re-messia, “la luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). Avevano visto fiorire una stella nella calotta blu-scuro del profondo cielo d’oriente, si erano messi in cammino, e quando la rividero palpitare tenera e alta sopra Gerusalemme, “provarono una gioia grandissima” (Mt 2,10). Forse è vero il detto: “Si trova quello che si cerca”. Due carcerati guardavano fuori dalle sbarre della prigione. Uno vide soltanto il fango della strada, e si rattristò. L’altro guardò le stelle, e si rallegrò…

1. La gioia non è uno dei tanti doni dei vangeli del Natale: è il dono dei doni. Al saluto di Maria, il bambino aveva “scalciato di gioia” nel grembo di Elisabetta. E nella notte santa l’angelo aveva svegliato di soprassalto i pastori, con quel messaggio del tutto inatteso: “Vi annuncio una grande gioia”. Sì, bisogna immaginare i Magi pieni di gioia quando, dopo aver adorato il Bambino, con un pieno di gioia fecero ritorno al loro paese. Non si tratta solo di alcune vene di gioia, che affiorano nel testo qua e là, ma piuttosto di un ruscello che percorre, limpido e gaio, i vangeli dell’infanzia. Noi però veniamo duemila anni dopo i fatti, e come può allora quell’onda di letizia arrivare a lambire la sponda di noi cristiani del terzo Millennio?
Anzitutto, per via di memoria, nel senso che nella Chiesa noi ricordiamo le grandi cose che ha fatto per noi l’Onnipotente, e Santo è il suo nome. Leggiamo a firma di Giovanni: “Guardate quale grande amore ci ha donato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (1Gv 3,1). E’ una affermazione percorsa da un brivido di stupore, quasi di attonita sorpresa: è la meraviglia di essere figli. L’amore di Dio è così grande da sbalordirci: la realtà ha davvero superato ogni più ardita immaginazione. Un Dio che è Padre “di suo”, il quale non aveva, certo, bisogno di noi per esprimere la sua paternità, eppure ci ha fatti suoi figli! Alle spalle di ognuno di noi non c’è né il fato né il caso, ma il libero, gratuito amore di un Dio Padre-Abbà. E’ il mistero del Natale e della sua manifestazione, l’Epifania. Più volte in questo tempo la liturgia ci ha ripetuto l’affermazione audace e inaudita di san Paolo: “Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!” (Gal 4,6). Alle spalle di ognuno di noi c’è l’evento del nostro battesimo, per cui non solo ci chiamiamo, ma realmente siamo resi figli di Dio. Un’esistenza vissuta senza questo stupore risulterebbe tristemente scolorita, e la gioia di essere cristiani verrebbe irrimediabilmente spenta.

2. Ma la gioia di essere cristiani, oltre che per via di memoria, la sperimentiamo anche per via di presenza, poiché registriamo che anche qui e ora, al presente, Dio non si è ancora stancato di agire per noi, nella Chiesa.
Pertanto, vorrei dire quali sono per noi le ragioni della gioia di essere cristiani.
Sono felice di essere cristiano perché la grazia del Signore mi permette di chiamare Dio con il dolce nome di Padre, di dire a Cristo che sono suo fratello, di pronunciare queste parole con la voce del loro stesso cuore, lo Spirito Santo.
Sono felice di essere cristiano perché la fede in Gesù non mi risparmia di sentire la paura, ma mi dà la forza di non acconsentire alla paura. E’ umano provare paura: dei fallimenti, dei conflitti, delle malattie, del futuro, della madre di ogni paura: la morte. Ma per me il Vangelo è il ‘solvente’ di ogni paura. Perché – mi dice Gesù – credi che io abbia voluto assaporare, nel Getsemani, quella misura sconfinata di paura, se non per avere titolo e merito per liberarti dalla tua? Men che meno devo avere paura di Dio: “Voi – ci ricorda san Paolo – non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli” (Rm 8,15). Perfino nel mio peccato devo ricordarmi che se io peccatore mi separo da Dio, Dio non si separa da me peccatore.
Sono felice di essere cristiano perché la fede nel Dio di Gesù mi fa godere la gioia delle piccole cose. Nel Talmud è scritto: “Ognuno dovrà rendere conto a Dio per tutte le gioie che Dio gli ha dato, di cui non ha saputo godere”. Le piccole cose: un sorriso buono, dato o accolto. Una parola di perdono. Una buona notizia ricevuta. Un piccolo servizio prestato per alleviare una sofferenza…
Sono felice di essere cristiano perché la fede in Gesù mi aiuta anche a sperimentare la gioia nella tribolazione. E’ la perfetta letizia che si vive nella prova, per la perdita di una persona cara, per un insuccesso personale, per l’ingratitudine degli altri, soprattutto per la persecuzione o la derisione a causa della nostra fede. “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi” (1Pt 4,13ss). Anche l’apostolo Paolo “sovrabbonda di gioia” nelle sue tribolazioni (2Cor 7,4). E’ la gioia di sentirsi guidati e sostenuti dallo Spirito, che attesta che siamo figli ed eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo. Perché noi soffriamo con lui nell’attesa di essere con lui glorificati (cf Rm 8,15-17). Sono felice di essere cristiano perché la fede mi dà la possibilità di salmodiare con l’apostolo il canto di vittoria: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (…) Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8,35.37).
Sono felice di essere cristiano perché il comune battesimo mi consegna l’inestimabile capitale e l’impareggiabile gioia di una fraternità universale, in una unica Chiesa che è veramente cattolica. Si può risiedere a Roma, a Rimini, a Lima, ad Aleppo, a Calcutta, ma i cristiani formano una sola grande famiglia, multicolore nella diversità, coesa e unita nella comunione. Qui noi cristiani italiani dobbiamo ricordare che voi, detti ‘stranieri’, nella nostra Chiesa non siete, non potete, non dovete essere “né stranieri né ospiti” (cf Ef 2,19). E per noi cristiani riminesi, accogliervi e farvi del bene, prima che un dovere, è un bene. Non solo per voi, ma anche per noi. Perché il bene fa sempre bene, non solo a chi lo fa, ma anche a chi lo riceve. Fare del bene è l’unico modo per stare veramente bene.
Oggi il mondo come pure la Chiesa accusano un preoccupante deficit di gioia. I Magi ci ricordano che per noi cristiani, più che una possibilità, la gioia è una responsabilità. Il mondo ha diritto alla nostra gioia: perché è il test più attendibile dell’autentica credibilità di noi credenti.
+ Francesco Lambiasi