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Il gioco d'azzardo patologico

di Redazione   
Tempo di lettura lettura: 4 minuti
ven 29 gen 2016 08:17 ~ ultimo agg. 3 feb 12:55
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E’ ben noto che la dipendenza dal gioco d’azzardo costituisce un grave problema a livello personale, familiare e sociale, con conseguenze devastanti, che si riscontrano e si palesano progressivamente, in relazione ad una crescente perdita della capacità di porre limiti al coinvolgimento nel gioco, al verificarsi di perdite economiche sempre più frequenti ed ingenti e ad una sempre più pregnante immersione nell’attività di gioco.
Quando il gioco d’azzardo trasformandosi da comportamento occasionale diventa abituale fino a divenire esperienza che catalizza il resto della vita, si può osservare nel giocatore un vero e proprio restringimento del campo di coscienza e aspetti quasi psicotici correlati alla perdita dell’esame di realtà.
Alcuni aspetti del pensare e alcune dinamiche intrapsichiche possono sostenere nella persona l’insorgere e lo sviluppo della dipendenza dal gioco.

 

Il giocatore si avvicina al gioco con l’illusione di poter davvero vincere, accedendo a guadagni ingenti in modo per lui praticabile e semplice. E’ il miraggio di divenire improvvisamente ricco senza fatica. Accanto a questa spinta motivazionale, fallace, agiscono le dimensioni dell’”azzardo” e della sfida, che attivano nelle persone reazioni celebrali adrenalinico-eccitatorie e che, solo per il tempo del gioco, possono conferire la percezione di essere maggiormente e più intensamente nell’esistenza, quasi il gioco fosse un antidepressivo.
Spesso le persone che giocano, e che vivono comportamenti ossessivo compulsivi e dipendenti, riferiscono che il gioco costituisce per loro un tempo distaccato, tutto loro, in cui possono sentirsi padroni di sé e vivere una sorta di vita parallela, un rifugio. Non è affatto detto che queste persone vivano realmente vite poco colorate, se le si valuti con uno sguardo esterno, tuttavia questo è il loro vissuto.

 

Ma facciamo un passo indietro.
In certe fasi dell’esistenza può essere difficile attraversare la fatica di ricercare e sviluppare la propria identità, perché ciò significa definire o ridefinire, e sapere di avere, un personale nucleo di amabilità, affermare il proprio essere e sentirsi unico, circoscrivere il tentativo di ricercare negli altri i riscontri della propria amabilità e delle proprie capacità, e dunque smettere di cercare prevalentemente nel giudizio o nel consenso altrui gli indicatori di un proprio valore.
Se si è avviluppati al senso di sé che conferiscono gli altri, quando poi la persona deve farcela da sola, nei passaggi di crescita, in realtà non ha costruito e sufficientemente maturato gli strumenti interiori per riuscirvi, se non può differenziarsi ed individuarsi perché non sente di valere abbastanza, senza il rispecchiamento altrui, da cui dipende. Si sentirà vuota e inutile. Oppure, essendo affettivamente invischiata in dinamiche relazionali troppo pesanti da sostenere senza riuscire a capirne e chiarirne le principali sfaccettature, si ritroverà confusa, inquieta, bloccata.

 

Per riuscire a permettere alla propria coscienza di divenire un riferimento fondamentale per la sua vita e di guidarla, la persona deve realizzare quel difficile, lungo, a volte doloroso, percorso di individuazione che progressivamente le farà scoprire la sua unicità e bellezza imparando a stare in rapporto coi propri limiti, le contraddizioni, gli attriti tra le parti di sé. Significa accettare e riconoscere gli aspetti della propria persona, compresi i limiti e le ombre, smettendo di averne talora disprezzo o disgusto.
A volte è faticoso perché la dipendenza dal giudizio o dallo sguardo altrui, così necessari per poter sentire di valere, e senza la legittimazione dei quali è come se non si contasse nulla e la propria vita non avesse senso, spesso affonda le radici in difficoltà antiche, connesse alle caratteristiche dell’attaccamento alle figure primarie.
Tuttavia c’è un tempo in cui, la persona ormai adulta, non può più imputare agli altri il proprio sentire e la responsabilità delle proprie azioni, perpetuare un atteggiamento vittimistico verso i genitori o verso un mondo cattivo e ingiusto, aspettarsi dagli altri la soluzione ai problemi dell’esistere. C’è un tempo in cui la persona deve assumere la vita nelle proprie mani, in un certo senso appropriarsi di essa, sostenere la responsabilità delle proprie appartenenze e delle proprie scelte, e dare risposta ad esse. Anche imparando a chiedere aiuto, quando necessario, accettando pure la possibilità del rifiuto, se ciò si verifica.

 

I tempi per giungere a questa fase, per chi si mette in viaggio, possono essere molto soggettivi, cambiare davvero tanto da percorso a percorso. Certamente approfondire questi aspetti è fondamentale per comprendere il vissuto e le dinamiche cognitive e psicoaffettive della persona “vittima” del gioco, e poterla così affiancare nel percorso di riappropriazione della propria esistenza.

Evidenziamo poi un altro dei molteplici aspetti che spesso si ritrovano nei ragazzi e negli uomini e donne che abusano del gioco.
Abbiamo accennato, prima, che il gioco può essere vissuto come un tempo sottratto al divenire dell’esistenza, una dimensione del tutto personale, intoccabile, un rifugio, e l’eccitazione che ne deriva è data anche da una percezione, distorta, ma vissuta, di un fluire del tempo sottratto agli altri, una dimensione che rivela il tentativo, sia pur fallace, di appropriarsi di sé.  Qui il bisogno di affermazione e definizione, lungi dal riuscire a farsi largo attraverso le inevitabili criticità delle relazioni e della vita, e sostenerle, cerca e trova una scappatoia, il gioco, quale luogo di azione e di affermazione, paradossale, di un tempo e di una dimensione personali, oltre che il miraggio di facili e cospicui guadagni.
Il conflitto tra dominio da una parte, e percezione di subire dall’altra, che oppone al sentirsi impotente e incapace un’area di possibilità e dominio (qualche giocatore riporta il dominio sul tempo, qualcun altro addirittura la sensazione di dominare la slot machine, qualcun altro la percezione di sentirsi potente nell’illusione di riuscire a vincere), traduce il bisogno, sia pur in un tentativo ingannevole e distruttivo, di affermazione di sé, e di “potere” molto più di quanto si pensi di riuscire con le proprie forze.
Dott. sa Daniela Pesaresi
Servizio Liberamente Coop. Il Millepiedi