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Navigare è necessario, non lo è vivere

di Stefano Rossini   
Tempo di lettura lettura: 3 minuti
lun 20 apr 2015 16:37 ~ ultimo agg. 17:09
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Navigare è necessario, non lo è vivere. Le parole di Pompeo ai soldati, solo un rimasuglio di versione per studenti, sono una cruda verità oggi, all’indomani dell’ennesima strage del Mediterraneo. Strage, non tragedia. Perché la tragedia implica una casualità, un’impossibilità di intervento.

Navigare è necessario, non lo è vivere. Non lo è vivere al di qua del mare (per chi parte), con la guerra, le dittature, i massacri. Non lo è vivere al di là del mare, con le prigioni, i centri di accoglienza, i Salvini, l’indifferenza. Non lo è vivere nel mezzo, nel mare. Perché il mare inghiotte. Davanti alla morte siamo tutti uguali, ma nella scelta di una barca le diseguaglianze fanno la differenza.

Mi sento un po’ strano a scrivere di questo argomento. Mi sembra un gesto inutile per molte cose. In molti in questi giorni mettono le dita sulla tastiera, una parte di me non vorrebbe farlo, perché di fronte alla morte preannunciata di tante persone rimane solo il silenzio, appendiamo le cetre alle fronde dei salici come scrisse Quasimodo, eppure mi sento in dovere di scrivere qualcosa, anche solo per cercare di non essere indifferente, più di quanto lo sia quotidianamente.
Lascio ad altri più esperti e bravi di me la cronaca e l’analisi dei fatti. A me rimbalzano in testa solo due pensieri, correlati. Da un lato chi vomita livore e inutile odio su morti che mai avrebbe visto né incontrato se fossero sopravvissuti, sbarcati e avessero avuto la possibilità di cominciare una nuova vita, solo perché si sente defraudato di non si sa bene che cosa. E’ indecente il modo in cui chi scrive queste cose, nel gioire delle sfortune altrui, riesca a trovare anche il modo di dipingersi come una vittima, per i problemi di lavoro, famiglia, difficoltà finanziarie, che per carità ci sono e abbiamo tutti, ma sono di ordine radicalmente diverso da chi ha perso tutto e fugge.
Eppure di fronte a queste pagine, puntualmente riportate su facebook e twitter, mi viene da pensare e sperare che siano una minoranza, uno sparuto gruppo di pecore violente a cui viene data troppa eco, quasi che queste dieci voci diventassero cento, e poi mille.
Tra questi commenti, però, ce n’è uno che mi porta ad un’altra considerazione. Ed è quello di Daniela Santanché. Lasciando da parte il pensiero che si può avere rispetto a sedicenti politici che gettano benzina sul fuoco, scrive una cosa, per una volta, vera. La parlamentare di Forza Italia ha dichiarato ai microfoni di Sky TG24:

“Bisogna affondare i barconi. Non ci sono altre soluzioni. Meglio un atto di guerra che perdere la guerra”.
E’ una guerra. Lo ha detto, molto meglio di come potrei farlo io, Alex Zanotelli, alla conferenza stampa di presentazione della scorsa Marcia per la Pace da Perugia ad Assisi. E’ una guerra, che permette a noi di mantenere il nostro stile di vita. Perché questo sia possibile, dato che nel mondo siamo più di 7 miliardi, qualcuno deve rimanere nella povertà più nera, e deve farlo a casa sua. Se prova a scappare e venire qua, lo attende una reazione da parte del nostro sistema.
Tutto il resto è retorica che gira attorno a questo concetto, a questo noi contro loro.
E’ il motivo per cui siamo tutti in prima linea per essere #jesuisCharlieHebdo ma non siamo altrettanto solerti ad essere #Sonounpoveromigrantemortoinmare.
Perché i primi sono nostri alleati, sono i “nostri” e quindi vanno commemorati. Gli altri fanno parte di coloro che vivono dall’altra parte della barricata. E quindi non ci riguardano, anzi, come scrivono tanti nei peggiori commenti su facebook: 700 in meno, aria più pulita.

Poi, come si possa arrivare a formulare frasi del genere, anche nel mezzo di una guerra, mi lascia davvero senza speranza, perché anche in un conflitto spesso c’è il rispetto per il proprio nemico, mentre qui siamo all’imbarbarimento più totale.