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Provincia Rimini Social

Consigliera di parità: un aiuto contro le discriminazioni di genere

di Stefano Rossini   
Tempo di lettura lettura: 3 minuti
gio 20 nov 2014 09:33 ~ ultimo agg. 26 nov 15:23
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Donna e madre sono aspetti diversi di una stessa persona. Non sempre è facile farli convivere nella vita di tutti i giorni, ancor meno lo è sul lavoro, luogo in cui, spesso, la forbice delle sproporzioni tra uomo e donna si allarga ancora di più tra uomo e donna madre.
Per questo esistono leggi che tutelano il ruolo della madre al lavoro, e, sempre per questo, dal 1991, esiste una figura di cui poco si sa e si parla: la Consigliera di parità. Un ufficio unico in Europa. Perché in Italia siamo più avanti, o perché ne abbiamo più bisogno di altri stati?
Un veloce sguardo, e la seconda ipotesi si fa strada ormai come certezza, ma rimane il fatto che l’Ufficio della Consigliera delle Pari Opportunità sia uno strumento di grande utilità, in ogni caso, e poco conosciuto.

La consigliera non è un organo politico, non dipende dall’amministrazione locale ma è nominato direttamente dal ministero. Uno per provincia, a cui si aggiungono quelli regionali e un referente nazionale. La carica dura 4 anni. Il primo obiettivo è quello di occuparsi di discriminazione di genere nel mondo del lavoro. Ne consegue, quasi forzatamente, che la maggior parte dell’attività si concentra nella tutela della maternità.

 

“Spesso le donne che ritornano dalla maternità, trovano al lavoro un ambiente diverso, più ostile – racconta Carmelina Fierro, consigliera di parità supplente – Questo accade perché il datore di lavoro non riesce, o non crede di poter riorganizzare il lavoro, e si crea una situazione di malessere”.

Si va dai piccoli cambiamenti, come una nuova postazione di lavoro, a situazioni di vero e proprio mobbing come il demansionamento, o la rimozione della scrivania, o addirittura delle foto di famiglia dalla scrivania.

“Ogni anno – continua Fierro – registriamo 100 dimissioni volontarie a causa della maternità”

 

Dimissioni, non licenziamenti, perché la legge vieta il licenziamento della madre durante il primo anno di vita del bambino. Se la madre lo desidera, però, può avviare delle dimissioni tutelate che devono cioè essere convalidate dalla direzione territoriale del lavoro, e che spesso nascono da un accordo tra datore e lavoratore. La maggior parte di queste dimissioni vengono motivate con un generico incompatibilità. Ma è possibile, dopo anche 10 anni di rapporto professionale, che di colpo si sviluppi un’incompatibilità?

“Il problema però è più complesso. Da un lato, infatti, c’è la donna, diventata madre, che vive un momento particolare della propria vita, in cui è necessario riorganizzarsi. Spesso è la donna stessa che si auto limita perché non ha il senso della discriminazione in un momento della vita in cui tutto si fa confuso. Dall’altra parte può capitare che in piccole aziende sussistano effettive difficoltà di riorganizzarsi o che non ci si renda conto di attuare atteggiamenti discriminatori. Ad esempio alcuni datori di lavori demansionano con l’idea di lasciare maggior libertà alla donna”.

 

Ma ciò che accade, alla fine, quando non si trova un compromesso, un incontro, è la perdita del lavoro da parte della donna, che si licenzia e rimane fuori dal mercato per un periodo più o meno lungo, alla fine del quale deve ricominciare da capo; e in più c’è una grave perdita anche per l’azienda che abbandona dipendenti preparati e capaci, anche dopo anni di rapporto professionale.

Nel primo semestre del 2014 ci sono stati 101 casi di dimissioni tutelate (dati DTL Provincia di Rimini). La fascia d’età più colpita è stata quella dai 26 ai 35 (con 58 casi) seguita da quella 36-45. Non si tratta però solo di neoassunte: 37 casi riguardano donne assunte dai 4 ai 10 anni. 4 casi addirittura sopra i 10 anni. E’ una grande perdita di capacità lavorativa.
I casi riguardano principalmente aziende piccole, sotto i 15 dipendenti (66 casi). Nel primo semestre del 2013 i casi sono stati 92.

 

Ma come interviene la consigliera? Cosa può fare?

“Noi interveniamo come pubblico ufficiale. Il primo passo è la segnalazione. La donna viene da noi a denunciare una situazione di malessere. E’ molto importante che chi necessita del nostro aiuto arrivi con tempestività. Intervenire dopo un licenziamento o una dimissione è estremamente complesso e difficile. Una volta segnalato il caso chiamiamo anche il datore di lavoro, poi, in un terzo incontro, convochiamo entrambe le parti. Per noi è davvero importante sottolineare che ciò che cerchiamo è una conciliazione. Punire il datore non è il nostro intento, quanto far capire quale danno deriverebbe dalla perdita di un dipendente preparato. Cerchiamo di trovare una situazione che sia funzionale per entrambi”.

L’ufficio, oltre a far notare l’atteggiamento discriminatorio, e richiederne la rimozione, può proporre al datore anche soluzioni diverse, come flessibilità negli orari, part time reversibile, postazione di telelavoro e spesso promuove anche bandi europei e svolge attività di promozione per aziende, di consulenza, per sperimentare modelli flessibili. Sempre su questa linea, l’ufficio ha stretto un protocollo col sindacato e collabora con la camera di commercio per organizzare convegni e incontri.

 

Se però la trattativa non va in porto?
“Allora l’ufficio può segnalare l’atteggiamento discriminatorio al tribunale o all’ispettorato del lavoro. Ma noi cerchiamo di intervenire prima, quando il rapporto di lavoro è ancora in essere. Per noi è davvero fondamentale promuovere una cultura conciliativa, perché anche il datore di lavoro va sostenuto, e ogni caso va valutato a sé”.

 

La consigliera di Parità della Provincia di Rimini